Una donna esce dal carcere della Giudecca con in mano ciò che le è stato tolto prima della sua detenzione; un’altra entra con indosso vestiti inappropriati per un istituto di pena. Una ha lo sguardo fisso e gli occhi gonfi, l’altra lacrime che sgorgano incessanti. Una guarda verso la libertà e allo stesso tempo la solitudine, l’altra negli occhi degli agenti penitenziari intravede già regole e metodi che dovrà imparare in fretta.
È un passaggio di testimone, un ciclo che si ripete all’infinito fatto di sensazioni ed emozioni forti, si percepisce anche un senso di ineluttabilità. Marco Perego, regista di «Dovecote» — colombaia in inglese — il corto di 17 minuti che viene proiettato in una saletta della casa di reclusione della Giudecca, il Padiglione della Santa Sede per la Biennale d’arte di Venezia, fissa qui uno dei momenti più intensi della sua opera che vede protagonista la moglie Zoe Saldana, famosa attrice statunitense.
Zoe condivide la scena con circa 20 detenute che hanno acconsentito a prendere parte al progetto, a calarsi per una volta nei panni di attrici. «Quello è il momento in cui si può capire come queste donne abbiano costruito un filo sottile che le lega in modo indissolubile, rispondendo con il senso di comunità al fatto di non sentirsi mai viste né accettate».
Il regista parla della «forza di queste donne» e l’ingresso di una nuova detenuta — aggiunge — perpetua un circolo: nessuno fuori ti vede, nessuno ti sente, sei invisibile e quindi dimenticata.
Nei primi piani di Zoe, con i capelli legati e senza trucco, si percepisce l’interiorità di una donna in procinto di essere libera che però non riesce a sorridere mentre lascia le sue compagne percorrendo un lungo corridoio, salutando con lo sguardo quella che a tutti gli effetti è stata la sua casa per anni. È un passaggio sottolineato anche da un altro cambio: dal bianco e nero dell’interno del carcere della Giudecca infatti si passa al colore.
Buio e luce ma è una luce che si fa fatica a percepire anche se Zoe accenna ad un sorriso, guardando un colombo sul molo, e tira un sospiro come a dire: «riprendiamo il cammino».
Quella vissuta da lei e dal regista è stata un’esperienza toccante. «Per noi — spiegano — è stato un momento molto intimo, incontrare le donne della Giudecca, ritrarle in modo onesto in tutta la loro bellezza e vulnerabilità è stata un’esperienza che ci ha segnato». L’intenzione era quella di «farle vedere, ascoltarle, scoprire la loro resilienza».
Un lavoro costruito ogni giorno, una fiducia fatta di piccoli passi che si trasforma naturalmente in intimità. «Ogni sera, al termine delle riprese — raccontano — ci lasciavano poesie, storie e braccialetti che facevano per noi».
È la ricchezza della relazione, del sentirsi viste, considerate e apprezzate. «La cosa che ci ha colpito di più — aggiungono Marco Perego e Zoe Saldana — è l’abbraccio e l’accoglienza che ci hanno riservato e che in questo film emergono con forza, sentiamo di averle ritratte in una maniera vicina alla lora anima».
È vero, si percepisce davvero così.
di Benedetta Capelli