· Città del Vaticano ·

Da Rebibbia alla Giudecca

Un fiume di umanità

 Un fiume di umanità  ODS-023
06 luglio 2024

Quello che fa più sorridere è la coincidenza temporale: il 28 marzo la prima, il 28 aprile la seconda. Quasi una ricorrenza. Ma non è solo la data a legare le visite dei mesi scorsi di
Papa Francesco in due
penitenziari femminili: il carcere romano di Rebibbia, visitato il Giovedì Santo per la Messa in Coena Domini, e quello della Giudecca, prima tappa della visita nella Serenissima.

Il legame, piuttosto, è quella stessa sensazione agrodolce che si prova, sia che ci si trovi alla periferia della Capitale che su un isolotto della Laguna, una volta varcati i cancelli scorticati e incontrate “le detenute”. Una categoria sociale quasi astratta, mitizzata in serie tv, protagonista di innumerevoli “storie” letterarie e giornalistiche che, tuttavia, non combaciano con la realtà. Quella che raccontano i volti che si incrociano in questi luoghi: smunti, stanchi, tatuati, tagliati (anche volontariamente), truccatissimi, pieni di piercing o di rughe. Volti che raccontano, sì, sofferenza, ma anche rabbia, fierezza, sfinimento, determinazione.

Francesco, sommando le due visite, avrà visto in meno di cinque ore circa 300 di questi volti: 200 a Rebibbia femminile e 80 alla Giudecca. È difficile che possa ricordarli tutti; al massimo gli saranno rimaste impresse le recluse che hanno offerto la loro testimonianza o quelle che hanno pianto a dirotto mentre era chinato a lavargli i piedi. Ma è probabile che anche a Francesco sia rimasta addosso da quelle visite la stessa sensazione di tenera amarezza — o di amara tenerezza — nel vedere persone, condannate in via definitiva, dare sfogo alla propria umanità negli stessi campi o cortili in cui fumano, litigano, prendono l’ora d’aria, imparano un mestiere. Senza filtri, né protocolli.

A Rebibbia, anche durante l’omelia o il rito della Lavanda dei Piedi, in un frangente di massima commozione, c’era chi urlava e faceva battute in romanesco ad alta voce, quasi a voler sdrammatizzare un momento troppo intenso rispetto all’ordinarietà. Sempre nel campo del penitenziario romano qualcuna, all’ingresso del Pontefice, oltre a «W il Papa» ha approfittato per gridare «Libertà», o chi, come una donna nigeriana, era piegata in due dal dolore e singhiozzava: «Mi aiuti, soffro troppo». Nella Giudecca c’era invece chi aveva lo sguardo spento, quasi indifferente, chi piangeva a dirotto, chi si è messa a scherzare col Papa o gli ha buttato le braccia al collo.

Un fiume di umanità, insomma, declinata in diverse emozioni ed espressioni da queste donne accomunate tutte dalla gratitudine di aver ricevuto un gesto di attenzione e confidenza da una delle personalità più importanti della terra, il Papa. Che è andato a spendere del tempo con loro e, nel caso della Giudecca, ha avuto pure l’intuizione di installare tra mattoni rossi e celle fatiscenti il padiglione della Santa Sede per la Biennale d’Arte di Venezia.

Lo diceva Giulia, detenuta poco più che ventenne nell’istituto veneziano con la passione per la scrittura: il Papa «ci ha reso protagoniste» e «ci ha permesso di respirare un’aria nuova» in mezzo a quello che in uno dei suoi versi più ferenti ha definito un «inferno mascherato di giustizia».

Francesco se l’è presa tutta questa umanità. Senza filtri o protocolli. In carcere, in fondo, ha scelto di andarci per questo. Ha incanalato tutto in una parola: «Rinascita». Che significa ripartire, andare avanti, non rimanere «caduti» nei propri sbagli, ma guardare all’orizzonte, pure se offuscato da sbarre di ferro. Guardare cioè a quel Dio che ama tutti, perdona tutti, per cui tutti sono figli. Un messaggio universale risuonato come annuncio di speranza sia alla periferia della Capitale che su un isolotto della Laguna.

di Salvatore Cernuzio