Quando, dopo i lunghi preparativi, sono finalmente entrato nel Padiglione della Santa Sede, a lavori conclusi, quando ho seguito la prima visita guidata dell’équipe delle signore detenute in carcere, mi sono reso conto che le mie parole si dovevano trasformare. E ho capito che la realtà mi stava dando una lezione, confrontandomi ancora una volta con il principio che Papa Francesco non si stanca mai di sottolineare: «La realtà è superiore alle idee».
Quando si entra in contatto con questo padiglione avvertiamo il bisogno di parole nuove, rischiando una operazione di cambiamento che non è un semplice esercizio retorico o un aggiustamento in qualche misura prevedibile, ma qualcos’altro. Per quanto mi riguarda, sono due le parole suscitate da quello che ho visto: reciprocità e trasformazione.
Perché reciprocità? Vorrei qui rivisitare la domanda che il filosofo Franz Rosenzweig si poneva in un momento drammatico della storia umana, come la Prima Guerra Mondiale. Il pensatore tedesco si chiedeva infatti se, prima della fiducia nella ragione, che è alla base di ogni sistema filosofico e politico al governo della società, non ci sia una fiducia previa, di cui è urgente la riscoperta. Non dovremmo prima riattivare la fiducia nei legami e valorizzare quella nuda esperienza di reciprocità in cui, umilmente ma intensamente, si esprime la fiducia di un essere umano in un altro essere umano? Non dovremmo forse riconoscere che la fiducia nelle idee, che possono eventualmente cambiare il mondo può scaturire solo da un’esperienza previa di fiducia reciproca che cambia effettivamente il cuore di tutti? Sapersi reciproci richiede una pratica di circolarità e di scambio, instaura un tempo di ascolto empatico e di incontro, invece di far trionfare l’esclusione, le disuguaglianze e i muri. “Reciproco” è il termine usato da Gesù quando propone di porre il comandamento dell’amore al centro della vita sociale: «Amatevi gli uni gli altri», cioè, reciprocamente.
Sono convinto che il programma propostoci dalla parola "reciproco" è una strumentazione di bordo necessaria. Tra le carte lasciate da Leonardo da Vinci si trovano degli appunti sulla fabbricazione di “strutture reciproche”, forme costruttive altamente versatili, utilizzabili come riparo da chi deve viaggiare o dormire all’aperto. È una metafora illuminante di ciò che siamo chiamati a fare in tempi di emergenza come quello che stiamo vivendo. Inventare “strutture reciproche” è oggi un compito cui è chiamata l’arte contemporanea, in uscita dai suoi circuiti abituali.
La seconda parola è trasformazione. Nel corso della mia prima visita, una persona mi ha detto una cosa che non posso dimenticare: «Le opportunità esistono», ha osservato, «ma devono poter essere colte. E a volte capita che l’opportunità si presenti il lunedì, ma io non ero pronto, perché non lo sarò fino a martedì o venerdì. E così l’opportunità del lunedì sembra perduta». In effetti, la trasformazione non è un affare né di automatismi né di ingenuità. Il pensiero cristiano riconosce in essa un intervento della Grazia. Il laico vi ravviserà eventualmente la coincidenza di fattori di crescita esterni e interni. L’artista la penserà piuttosto come una manifestazione della coscienza in grado di produrre una metamorfosi dello sguardo. L’importante è che crediamo tutti che la trasformazione — la nostra e quella del mondo — è possibile. Anche se è ardua e dolorosa, è possibile.
Quando guardiamo e ci lasciamo guardare con benevolenza, avviene questo grande miracolo che è la tessitura di reciprocità, giacché non siamo condannati ad essere “stranieri ovunque”, ma possiamo riconoscerci fatti dalla e per la reciprocità.
del cardinale
José Tolentino de Mendonça *
*Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione,
Commissario del Padiglione
della Santa Sede alla Biennale di Venezia