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Il sogno di un carcere “vuoto”

 Il  sogno  di un carcere  “vuoto”  ODS-023
06 luglio 2024

«Il carcere che vorrei non esiste. Perché, per come la vedo io, il carcere andrebbe abolito». A lanciare questa provocazione è una persona che il sistema detentivo italiano lo conosce bene: Luca Pagano è entrato nell’Amministrazione penitenziaria nel 1979, è stato direttore presso diversi Istituti (da Pianosa a Taranto, passando per Alghero, Asinara, Nuoro, Piacenza, Brescia, infine Milano San Vittore) e dal 2004 ha ricoperto vari incarichi dirigenziali.

«Lo so, è un sogno irrealizzabile — prosegue Pagano parlando al nostro giornale —, questa società ha poca fantasia. Tuttavia, ci possiamo avvicinare il più possibile a certi ideali». Come? «Beh, i passi in avanti fatti dalla legislatura internazionale e italiana in questo senso sono tantissimi: le misure alternative dell’ordinamento penitenziario, la riforma del codice di procedura penale, la riforma Cartabia, la sentenza Torreggiani della Corte Europea o le sentenze della Corte costituzionale per l’ergastolo ostativo».

Eppure, manca qualcosa. «E non si tratta mica di un vuoto burocratico. Il carcere lo abbiamo creato noi. E i parametri legislativi da noi stabiliti non sono neanche tanto male. Piuttosto, il problema è che in Italia non sappiamo amministrare quasi niente. Le strutture detentive non sono da meno. Temi come il sovraffollamento o i suicidi dei detenuti dovrebbero essere un campanello d’allarme, invece pochissimi ne parlano».

Insomma, «si avverte la mancanza di amministratori capaci — osserva Pagano —. Nessuno riesce a interpretare la norma. Pochi capiscono che il carcere deve svilupparsi non in maniera verticale, bensì orizzontale: occorre creare spazi, gestire, avere idee, progettare nel lungo periodo, dare stabilità e ampiezza, respiro. La legge riconosce che in carcere esistono diritti: la doccia, l’aria, la telefonata, la posta, il lavoro come parte del trattamento… occorre semplicemente applicare questi concetti giuridici a valori morali».

Il giurista Francesco Carnelutti notava proprio come «il diritto deve castigare non come il carnefice», ma «come il padre che tocca, nel procurare dolore al figliolo, il culmine dell’amore». Solo così il penale potrà «rivelare tutta la sua spiritualità» perché «il diritto è un surrogato della libertà». E il segreto di questo mestiere, in fondo, è tutto qui: nell’essere sbirro e riformatore, nel saper incrociare l’empatia del cuore con la rigidità della norma.

«Si rischia di diventare schizofrenici e talvolta ipocriti — ammette sorridendo Pagano — ma alla fine si arriva ad essere concreti. Non sono un intellettuale, non devo portare avanti correnti di pensiero, ho fatto per una vita il burocrate, ma l’ho fatto con consapevolezza. È normale che, se rinchiudo per 20 ore su 24 una persona in una cella all’interno di un carcere sovraffollato, gli faccio del male e dovrò riempirlo di ansiolitici. È normale che, se ignoro la precondizione di non colpevolezza e tratto un presunto imputato come un colpevole, lasciandolo in isolamento, la società avrà paura della giustizia. Che dire poi del paradosso del sovraffollamento? Almeno un terzo dei detenuti in Italia potrebbe ricevere misure alternative, ma non può usufruirne a causa di condizioni sociali soggettive svantaggiose. Se non ho un alloggio, se sono un migrante irregolare, se sono un ex tossicodipendente non so dove andare. Ecco come il carcere diventa un circolo vizioso troppo spesso alimentato dalla povertà. A scanso di equivoci, occorre ribadirlo a gran voce: la legge non prevede niente di tutto ciò».

Anzi, se il dibattito sociale è tanto sterile lo si deve proprio a queste mancanze politiche e non solo giuridiche: troppo spesso parlare di valorizzazione spirituale del recluso significa «andare a favore della criminalità. Chi sta in prigione deve, secondo la visione comune, avere di meno rispetto a chi vive fuori. Ragionamenti diversi da questo non portano voti. Peraltro, si tende a confondere il reinserimento sociale con l’inserimento sociale. In carcere ci sono tantissimi delinquenti, poveri, malati di mente, chi ha problemi psichici, tossicodipendenti, ci sono gli scartati, coloro a cui la società non ha mai voluto dare alcuna opportunità. Di quale reinserimento sociale parliamo?».

Vengono dal nulla e, dopo la detenzione, rischiano di tornare nel nulla. «Ecco perché abolire il carcere non è solo uno slogan, ma un progetto sociale», conclude Pagano. Oppure, lo si dovrebbe trasformare in quella struttura tanto ambita dal personaggio interpretato da Peppino De Filippo nel mitico film «Accadde al penitenziario», che faceva di tutto pur di andare in galera perché «io mi ci trovo tanto bene, è un mio diritto». Condizione ben diversa da quella — ahinoi più realistica — provata da Alberto Sordi nella pellicola «Detenuto in attesa di giudizio». Cinema a parte, la domanda centrale diventa una: esistono alternative? «Abbiamo provato a crearle — riflette Pagano —: nel 2006 a Milano abbiamo ideato il primo Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute ( icam ). Il progetto è nato con l’ambizione di portare via da San Vittore le donne con figli. Un bambino ha il diritto di essere bambino ovunque, soprattutto nei primi tre anni della crescita. Anziché creare dei piccoli centri per ogni regione, che avrebbero aumentato il rischio di isolamento per le donne incinte, abbiamo quindi creato una grande comunità».

Ma ben presto sono arrivati i problemi: «La legge ha ribaltato il processo dal quale eravamo partiti. Per le donne incinte oggi è vietato l’arresto, salvo una serie di eccezioni. In caso contrario, la donna col bambino viene però portata in carcere e poi sarà il magistrato a decidere se trasferirla all’ icam oppure no. Tutto ciò rallenta i processi, li rende più difficili. Molte carceri hanno creato dei nidi al loro interno, ma tenere un bambino in prigione è tutt’altra cosa».

Ecco perché la Santa Sede ha deciso di aprire il suo padiglione alla Biennale di Venezia 2024 nel penitenziario femminile della Giudecca e Papa Francesco aprirà una Porta Santa in carcere: per portare avanti un’idea e una battaglia, per assumersi il rischio di un futuro migliore non solo per un singolo individuo, ma per un ideale a cui non rinunciare mai. Quello della giustizia.

di Guglielmo Gallone