· Città del Vaticano ·

È proprio là , dove non te l’aspetteresti

 È proprio là , dove  non te l’aspetteresti  ODS-023
06 luglio 2024

Dove comincia e dove finisce il carcere?

Fino a dove si spinge il suo perimetro?

Davvero un muro può tenere separato ciò che è dentro da ciò che vive al suo esterno?

Dedicata agli ultimi e ai diritti civili, l’insolita collocazione e il grande rilievo alla partecipazione di Papa Francesco, unitamente a un parterre di indubbio valore artistico e umano (Maurizio Cattelan, Bintou Dembélé, Simone Fattal, il collettivo Claire Fontaine, Sonia Gomes, Claire Tabouret, Marco Perego & Zoe Saldana, Corita Kent) iscrivono l’iniziativa del Padiglione della Santa Sede per la Biennale d’Arte di Venezia tra le più originali del panorama artistico internazionale degli ultimi anni.

Dall’extraterritorialità dell’arte alla territorialità forzata della reclusione, i curatori del Padiglione, Bruno Racine e Chiara Parisi, hanno dato un corpo sensorio al concetto di inclusione, a cominciare dagli otto artisti e dalle ottantadue donne detenute coinvolti nel progetto.

Il reato, la pena, il giudizio.

Le persone libere fanno paura a chi è ristretto?

Sì, forse quando si attribuiscono la facoltà di fregarsene di tutti i reclusi della terra.

«Praticare l’inclusione — suggerisce Chiara Parisi — non è provare a garantire all’Altro uno sguardo scevro dal giudizio solo se simile a quello di chi guarda. Includere è portare nel proprio mondo, farlo conoscere, condividere senza infingimenti. Non abbiamo chiesto alle donne recluse della Giudecca di diventare artiste da un giorno all’altro, cedendo alla retorica e ai proclami dell’inattesa scoperta di umanità e di talenti a scadenza. Il desiderio era quello di evitare strumentalizzazioni e pretese salvifiche. Gli artisti, con il proprio mondo, sono stati accolti nello spaccato femminile della detenzione dagli operatori dell’Amministrazione penitenziaria, ma soprattutto dalle donne detenute che, a loro volta, in qualità di “guide” hanno aderito al progetto, entrando con assoluto rispetto nel lavoro degli artisti. È accaduto qualcosa di unico e, forse, anche di irripetibile».

Fino a dove può, arriva il nostro sguardo?

Varcata l’uscita, reggerà ai colpi dell’inautentico bisogno di erigere nuovi muri?

Cosa ne sarà dei giorni di “Con i miei occhi” quando tutto questo sarà finito?

«Avverto una sensazione di profonda gratitudine per l’opportunità che mi è stata offerta e non nascondo una certa responsabilità — confida Chiara Parisi —. Quando abbiamo pensato a questo progetto ci siamo chiesti cosa avremmo voluto restasse alle ottantadue donne a conclusione dello stesso. Lavorando con loro ci è stato chiaro. Per rimuovere quel senso di colpa, forte e lacerante, che molte si portano dentro, soprattutto nei confronti delle proprie famiglie, è necessario creare opportunità, occasioni, possibilità cui andare incontro con una formazione, un titolo spendibile nel mondo esterno».

L’arte e la luce.

Il carcere e il cielo filtrato dalle sbarre.

I fiori di gazania si aprono al buio.

«È una finestra sul mondo, un’esperienza umana sconvolgente. Non c’è spazio per l’idealizzazione». Le parole di Bruno Racine hanno la forza della convinzione e la lievità dello stupore. «Non ci può essere inclusione dopo la reclusione senza che alla persona sia stata offerta, in tanti modi, l’opportunità di coltivare sé stessa e la sua crescita personale. Per contribuire a questo, l’iniziativa voluta dal Cardinale Tolentino su mandato del Papa non ha semplicemente cercato nel carcere una sede. Tenta di avvicinare le persone a questa realtà, provando a facilitare, attraverso l’arte, l’incontro tra un dentro e un fuori che non è poi così diverso se ci si sofferma sui bisogni dell’essere umano. Mettendo da parte i preconcetti, e solo attraverso questo passaggio, è possibile incontrare la densità umana, l’interiorità profonda e complessa, la bellezza delle donne che fanno da guida al visitatore, conducendolo, attraverso l’arte, nel loro mondo quotidiano. Sarà sollievo e angoscia, perdendo la possibilità di individuare esattamente dove, a conclusione dell’esperienza, andare singolarmente a collocarli dentro e fuori di sé».

Il reato, la pena, la condanna.

La cella, la lontananza dagli affetti, il corpo immobile.

Davvero non esiste alternativa alla prigionizzazione del reo?

«Il carcere non può essere esclusivamente la pena. Perché non sia solo questo, è necessario continuare, anche a staffetta, con nuovi progetti, conoscenze, studi, saperi, sensibilità. Le parole — precisa la Parisi — sono state, e saranno per tutta la durata della manifestazione, lo strumento delle donne detenute per dare corpo al loro essere, un corpo non immobilizzato ma in movimento, uno sguardo che da con i miei occhi si faccia corale. Gli artisti offrono le proprie opere al visitatore per la costruzione di uno sguardo comune, non disposto ad abdicare alla rassegnazione. Non c’è spazio per il romanticismo e la retorica in carcere. È dura realtà. Tra i nostri obiettivi c’è il tentativo di suscitare uno sguardo diverso che vada oltre il controllo, facendosi più generosamente occhi che vedono».

Chiedere i permessi per entrare.

Entrati, chiedere permesso per muoversi in spazi vigilati.

Senza chiedere permesso, continuare a sperare.

«Abbiamo accettato questa avventura, che per me ha assunto i tratti della sfida, con entusiasmo, ma anche avvertendo da subito una profonda responsabilità etica a cominciare dalla scelta di dove allocare il Padiglione della Santa Sede. Il carcere è un messaggio in sé dal quale abbiamo provato, con l’imprescindibile contributo di tutti, dentro e fuori le mura della Giudecca, a farne scaturire di nuovi, in linea con quanto percepito da subito: la prospettiva, il futuro, il bisogno di sospendere il giudizio per contrarre le distanze, l’umanità delle donne detenute…».

Bruno Racine, Direttore di Palazzo Grassi e curatore con Chiara Parisi del Padiglione, tarda il termine detenute prima di pronunciarlo. Non è l’esitazione di qualcuno che teme di non maneggiare in maniera appropriata una lingua non sua, è più l’indugio di chi si accosta a qualcuno, cercando di farlo con rispetto e delicatezza.

«La fantasia è fervida in presenza di relazioni e di condivisione. Quella stessa che troppo spesso filtriamo attraverso la tecnologia. Lasciare i cellulari all’ingresso della visita è un po’ disarmare lo sguardo, a questo punto esposto nel guardare e nell’essere visto».

Quanto gli occhi del visitatore saranno trasformati dall’esperienza non potrà che dipendere dalla sensibilità dello stesso fruitore, quanto quelli della direttrice del Centro Pompidou-Metz di Parigi e del direttore di Palazzo Grassi sono già percepibile dall’appassionato entusiasmo con il quale hanno raccontato della malinconia del visitatore che esce sapendo che le sue “guide” all’interno del percorso nella Giudecca resteranno ancora lì, con la fiducia, però, nella possibilità per ognuna di loro di autorealizzarsi, interrogandoci tutti sulla possibilità di un contesto carcerario più propositivo e progettuale.

Condividere senza distinzioni la condizione di esseri umani.

Come il piccione nel cappello di un prestigiatore, l’Arte è là dove non ti aspetteresti di trovarla.

Con i miei occhi… vede!

di Anna Paola Lacatena