C’è stato un periodo nella mia vita in cui entravo e uscivo di galera. Non fraintenda il caro lettore: il vostro affezionato autore entrava alle 14 per uscirne alle 16, due o tre volte alla settimana. All’epoca facevo l’insegnante in carcere, ma sono state più le lezioni che ho ricevuto di quelle che ho impartito.
Ho imparato, soprattutto, un paio di grandi verità. Una — che però rischia di suonare perlopiù come una battuta polemica che lascia il tempo che trova — è che il carcere è come il manicomio: sono più quelli che stanno fuori di quelli che stanno dentro. L’altra verità — la più importante — è che può toccare a chiunque di finire rinchiuso dietro le sbarre (in quegli anni era ancora vivo l’eco del “caso Tortora”).
Questa verità fa giustizia di certi pregiudizi, stereotipi di cui facilmente è succube chi “da fuori” guarda il mondo carcerario. Ci si aspetta magari di trovarsi al cospetto di personaggi trinariciuti; invece, con buona pace del Lombroso, così non è.
In seguito, la vita — semper magistra — s’è incaricata di disvelare una terza, grandissima verità: le disgrazie che possono capitare, in fondo, si somigliano un po’ tutte. Pur, a volte, nella loro profonda diversità hanno un tratto comune: tolgono libertà. Quella di mangiare ciò che più piace, di andare dove e quando si vuole, di fare questo o quell’altro...
La strada a cui la povertà può condurre si può definire un carcere a cielo aperto. L’unica differenza è che l’altro ha in più quattro mura, un soffitto ed una porta che chi sta dentro non può aprire.
Può essere sconcertante, eppure uno dei fenomeni che si osservano più di frequente fra i senza dimora è il rifiuto di tanti di accettare un tetto, che pure dicono di desiderare. Che sia rifiuto di attenersi a quel minimo di regole e di controllo che la convivenza comunitaria richiede, o altro, il fatto rimane. E quel che più sconcerta è proprio l’affermazione della propria esigenza di “libertà” a motivare il loro rigetto. E qui scatta, a mio avviso, la trappola — ché di questo si tratta. È libertà quella di chi non ha garantite neanche le condizioni minime per risollevarsi? Perché, come già espresso su queste pagine, la strada è una base di partenza verso il niente, che non porta da nessuna parte. Si finisce per somigliare al protagonista del testo della canzone dei Beatles Nowhere Man che John Lennon descrive così: «He’s a real nowhere man / Sitting in his nowhere land / Making all his nowhere plans for nobody» (È un vero uomo di nessun posto / seduto nella sua terra di nessun posto / a far tutti i suoi progetti per nessuno). Ma poco dopo aggiunge: «...till somebody else lends you a hand» (...finché qualcun altro ti tende una mano). Ma se qualcuno quella mano la tende, ci vuole qualcun altro che la afferri. Altrimenti è uno spreco di energie, di pietas, di carità, di amore.
La prima cosa che mi ha colpito incontrando le detenute del carcere della Giudecca è stato l'entusiasmo con cui si son gettate nell’iniziativa del Padiglione della Santa Sede. È un’iniziativa che le motiva, le gratifica, è un’occasione di arricchimento e di crescita interiore. «Prima non sapevo che cosa fosse l’arte — ha detto una di loro —, ora potrei andare a visitare una mostra con cognizione di causa, sapendo di che si tratta! Magari quando sarò fuori di qui avrò una competenza in più».
Questo ragionamento suscita nel vostro affezionato autore un’altra similitudine: Per lei la Biennale, per me il giornale. Tutte cose che la vita un po’ te la cambiano!
Certo, le signore si son dovute impegnare in questo progetto, ma forse non chiedevano di meglio, consce di quanto non solo contribuisca a riempire le loro giornate, altrimenti monotone; ma fornisca loro maggiori strumenti critici. D’altra parte non sono sole: il Padiglione della Santa Sede ha attivato un meccanismo che coinvolge tutta l’istituzione penitenziaria della Giudecca. I tempi e i modi della routine carceraria sono stati significativamente alterati, portando lo stesso personale di sorveglianza a confrontarsi con prassi, procedure, altrimenti inusuali. Questo ha fatalmente comportato un impegno maggiore anche da parte loro.
Ma, soppesati i pro e i contro, vien da pensare — paradosso per paradosso —: “o un carcere vuoto o almeno una Biennale così ogni anno!”.
di Fabrizio Salvati