· Città del Vaticano ·

Care amiche , buttiamo giù il muro della solitudine

 Care  amiche , buttiamo giù il muro  della  solitudine    ODS-023
06 luglio 2024

La solitudine è uguale dappertutto. Quando ti prende non ti molla più. Non le importa se vivi in una cella sovraffollata o stai in una strada piena di gente sperando che qualcuno lasci uno spicciolo nella tua mano. E neppure se sei ospite in una struttura di accoglienza dove tanti volontari si danno da fare per cercare di cacciartela via. Ti perseguita, ti consuma.

Lo raccontiamo spesso sulle pagine dell’«Osservatore di Strada». Ma, per questo numero “speciale”, abbiamo provato a fare qualcosa di diverso. Abbiamo provato a buttare giù il muro della solitudine creando un ponte tra la periferia del carcere e quella della strada. Per questo abbiamo condiviso con alcuni amici del giornale le poesie e i racconti scritti dalle detenute della Giudecca (quelli che potete leggere nei post-it di queste e delle pagine precedenti). Alcuni di loro hanno sentito il bisogno di rispondere e ci hanno regalato i testi che pubblichiamo qui di seguito.

Care amiche, ho letto le vostre storie e ne sono rimasta colpita. Ne avete passate tante!

Voglio dirvi di non mollare mai, perché c’è sempre speranza. Sarete forti!

Alcune di voi sono dovute crescere in fretta come me. La mia storia è diversa: mia madre mi ha abbandonato appena sono nata, ma ho avuto lo stesso due genitori meravigliosi, che mi hanno amato. Sappiate che il Signore vi saprà amare: ci sarà la luce dopo il buio e così potrete finalmente assaporare la libertà perduta.

A tutte voi auguro una vita migliore di quella di adesso. So che ce la farete. La vita vale la pena viverla, c’è sempre tempo per ripartire. Non mollate mai, perché Gesù è un amico per sempre.

Vi abbraccio.

Lia

Forse qualcuno ricorda quella ballata in cui Fabrizio De André parla delle «calate dei vecchi moli» della Città vecchia dove s’incontrano «i ladri, gli assassini e il tipo strano che ha venduto per tremila lire sua madre ad un nano». «Se giudicherai da buon borghese — cantava Faber — li condannerai a cinquemila anni più le spese; ma se capirai, se li cercherai fino in fondo, se non son gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo». Li salva tutti.

Io vivo in un centro della Caritas, dove viene aiutato chi ha sbagliato o è stato sfortunato. Qui ho trovato ospitalità e cibo, ma anche umanità. Non dico pietà, ma umanità che dà forza per reagire e ricominciare.

Nelle carceri non dovrebbe essere la stessa cosa? Chi ha sbagliato non dovrebbe essere trattato da essere umano, usando attenzione, intelligenza e preparazione? In un paese civile dovrebbe essere così.

In galera, le donne dovrebbero essere trattate da regine.

Da ospite della Caritas, mi rendo personalmente conto di quante persone sanno di aver bisogno di aiuto. Anche se sono arrabbiate per la loro sorte vanno trattate con garbo per portare alla luce la loro dignità. Molte di queste persone sono passate per le patrie galere e raccontano come sono state trattate. Chi vive in carcere è sempre una persona e trattandola come tale la si potrà aiutare a uscire dal giogo.

Care amiche, i vostri scritti sono molto belli anche se duri. Ve lo dice un disabile emotivo. Io pure ho superato delle difficoltà anche se non sono così grandi come le vostre. I vostri racconti mi hanno colpito al cuore e me li porto lì e nella mia memoria. Avrei mille cose da scrivere, ma per me non è facile essere breve. Le vostre parole si intrecciano con la mia vita e con le difficoltà che affronto, che sono diverse, più semplici, ma tante. Siete un esempio a non mollare mai. Vi voglio bene anche se non ci conosciamo. Un abbraccio forte e grazie mille.

Avete ragione! Nella vita si commettono tanti errori per i quali dobbiamo pagare il conto. Ma questo non ci giustifica a smettere di sperare e di sognare una vita migliore. Perché, anche l’errore, se lo si sfrutta in un certo modo, può diventare una forza, un’esperienza di vita, quell’esperienza che servirà — ne sono certo — a rinascere da persona libera.

Il carcere lo conosco bene. Non per sentito dire. È da una cella che scrivo per questo giornale e, oggi, scrivo a voi. Fuori, da persona libera, hai tanti modi per “tirarti su”. Soprattutto hai gli affetti che ti possono sostenere nelle situazioni complicate. In carcere, invece, sei tu, da solo, col tuo modo di fare e i tuoi comportamenti, mentre aspetti di fare la telefonata, di andare ai colloqui, di ricevere la posta o il pacco. La detenzione ti irrobustisce nel carattere, ti perfeziona nella relazione, ti abitua al giorno dopo giorno, con lo sguardo fisso ed il pensiero costantemente rivolto alla data di fine pena, anche se sei consapevole che il “dopo” potrebbe essere assai difficile se non hai coltivato rapporti con la famiglia e se la stessa non ha continuato a credere in te.

Il carcere è un tempo di riflessione, ma anche di decisioni che solo tu devi prendere: rimanere in cella nell’ozio, oppure gettarti su ogni opportunità che ti si presenta. È pur vero che nella stragrande maggioranza delle carceri italiane non vi è un’adeguata proposta che ti risvegli. Ma leggere, ragionare, scrivere, fare sport, pregare, lavorare sono possibilità presenti ovunque.

La sera, a chiusura cella, il silenzio ti aiuta a far mente locale sul tempo trascorso. Il giorno che hai vissuto lo hai modellato tu. Il carcere è dunque il luogo dove non solo ti fai i muscoli con la palestra, ma anche il posto dove, rivedendo te stesso, disegni per te una volontà diversa per il tuo dopo.

Elio

Pierpaolo

Domenico

s.c.