Quando vai a trovare qualcuno, magari proprio dove egli abita, diventi ospite e la consuetudine dell’ospite è: primo, di essere rispettoso delle abitudini e regole di quella casa; secondo, di essere gentile; terzo, di portare con sé un dono da poter condividere.
Vorrei precisare che per me il dono può essere sia materiale che astratto, può essere una lettera, una scatola di cioccolatini, un mazzo di fiori, oppure un’emozione, un sogno, un obiettivo, un’idea, un pensiero.
Ecco, questa volta, in questo carcere, i nostri ospiti hanno portato doni in entrambe le forme. Oltre ad essere rispettosi, perché sono entrati in punta di piedi, senza fare rumore, si sono tolti le loro scarpe… quindi la loro strada, la loro vita, ed hanno indossato le nostre, così da poter quasi immaginare di stare vivendo la nostra realtà, seguire regole molto limitanti e attese lunghissime, sentire il ticchettio della lancetta rimbombare in testa e ogni istante scandito alla massima potenza sulla tua pelle.
Il tempo è un’entità misurabile, ma astratta, che qui dentro diventa mostruosamente tangibile. Solo che non sei tu che puoi toccare il tempo, non puoi fermarlo, non puoi accelerarlo, non puoi distruggerlo e non puoi nemmeno fare finta che non esista. Perché è lui che tocca te, è lui che ti ferma o ti manda avanti, ti distrugge o ti costruisce. È lui che ti ricorda costantemente di esistere e che tu esisti, anche se non nello stesso modo di prima, un’esistenza lontana, nascosta, sospesa, tormentata, fatta di sfumature, ma senza nessun colore.
Il tempo è nostro giudice, la sentenza è una condanna che ci siamo autoinflitti, senza volerlo o senza rendercene conto.
Gli avvocati sfilano nelle aule dei tribunali, un macabro spettacolo tra l’accusa e la difesa, e tu scivoli da spettatore a protagonista continuando a leggere quella ridicola scritta, che non uscirà mai più dalla tua mente e che pronunci come se fosse una barzelletta, la più grande e triste bugia che ti sentirai dire: «La legge è uguale per tutti».
Anime condannate e dannate, perché qui ti rendi conto dell’esistenza di un altro giudice più spietato, più attento, più nero, che di te conosce ogni singola mossa, pensiero, paura, intenzione. Questo giudice porta il tuo stesso nome, la tua stessa taglia, altezza, il tuo stesso profumo, le tue stesse scarpe, la tua stessa voce e non puoi, non puoi proprio non starlo a sentire, perché quel giudice sei tu.
E il giudizio che più pesa è proprio quello dato da sé stessi.
Che tu abbia sbagliato o no, accettare di essere, di stare qui dentro non è facile e sembra che le possibilità di farlo sia scarsissima, perché qui la chiusura non è solo fisica ma anche mentale. Devi fare i conti con i blindi, le sbarre, ma anche i limiti, le tue paure, le tue fragilità, devi dosare le tue emozioni, i tuoi pensieri, i tuoi ideali, devi riflettere cento volte prima di poter fare anche solo un respiro, perché quel respiro, in un momento sbagliato, può costarti l’aria che, poi, non potrai respirare. E anche se l’aria non ha un prezzo ed è di tutti, non qui.
Qui tante cose costano e davvero poche valgono. Non esiste privacy in questo inferno mascherato di giustizia, perché qui tutto intorno a te vede, ascolta, e niente tace.
Tanto rumore, un inutile ed insulso rumore. Qui il nemico non è il silenzio, ma il suo contrario. E qui, proprio qui, non puoi scappare. Per quanto veloce puoi correre, per quanti angoli avrai svoltato, per quanto fiato tu abbia speso e per quanto sudore ti sia caduto, ti ritroverai sempre nello stesso punto, con il cuore in gola, le gambe spezzate e quel rumore assordante che non ti lascia mai.
Anche la nostra ombra, al buio, ci lascia soli.
C’è un detto, solitamente usato per la polizia, che dice: «Cane non mangia cane». Questa volta vorrei includere anche noi detenute in questo detto, perché se c’è una cosa che qui ho visto è che non importa che tu sia cane, lupo, gatto, pantera, orso, cavallo, aquila o squalo, qui tutti mangiano tutti, qui se stai per affondare la gente viene a metterti una mano sulla spalla non per aiutarti, ma per farti andare giù più veloce. Non esiste Amore, ma solo sporchi interessi, non esiste amicizia ma solo convenienza, e se trovi un cuore realmente puro, capace di non sporcarsi nonostante qui sia tutto lercio e maleodorante, avvicinati ma, prima, se ti senti sporco lavati, purificati, perché lo sporco si può togliere, il marcio no.
Il carcere è devastante sotto ogni punto di vista. Ci sono poche prospettive, ma se riesci, anche solo in modo sfocato, a scrutare qualcosa che ti interessa, qualunque cosa, aggrappati. Perché le possibilità sono esattamente tre: Mollare, Fermarsi o Trasformare quest’esperienza in materiale prezioso, come un alchimista trasforma il ferro in oro.
La prima opzione è quella che purtroppo molte persone scelgono, perché non riescono a sopportare una condizione così critica e di atroce sofferenza: lottare ogni giorno contro i propri demoni e i demoni degli altri in uno stato di oppressione totalizzante può, in molti casi, scatenare un senso di rifiuto e disprezzo verso questa “vita”. Tutto diventa una minaccia, tutto ti rende impotente e dopo esserti arrabbiato, disperato, ad un certo punto ti arrendi al fatto che non c’è scappatoia e l’unica cosa su cui ancora ti sembra di poter decidere è la fine di questo dramma.
Dentro di te ci sono così tante cose, un caos, un rumore assordante come quando le nostre orecchie vengono sottoposte ad un suono troppo forte, tanto da non sentire assolutamente più nulla. Il nulla è tutto quello che ti resta di quel marasma, una spaventosa apatia ti pervade e l’unica cosa che la tua mente cerca è un modo per morire.
Annullato ogni istinto di sopravvivenza. Non importa, poi, come morirai, come soffrirai e quanto tempo ci vorrà prima che il tuo cuore smetta di battere. Basta solo non aprire più gli occhi, basta solo non vedere più questa vergognosa realtà, basta solo non respirare più questo odore acre di disumanità e sfiducia. Basta solo non udire più tutte quelle voci inascoltate, quei gridi d’aiuto, quei pianti, quelle provocazioni, quei ricordi ma, soprattutto, le voci nella tua testa. Basta solo non toccare più le tue stesse dita strette a pugno nelle tue mani e renderti conto di non stringere nulla, perché è il nulla quello che hai.
Basta solo morire.
Ogni cosa diventa una potenziale arma letale, guardi quella ferraglia su cui dormi e ad un tratto le lenzuola che usavi per coprirti, per scaldarti, o per nascondere il tuo viso lacerato dalle lacrime diventano un cappio da avvolgere attorno al collo, salire sullo sgabello, per salire sulla finestra, legarlo alle sbarre e in un modo meccanico, senza nemmeno permettersi di provare a pensare, o a ripensarci — perché quel fatidico giorno ti sei imposto di non cadere nel tranello della mente o del cuore che ti fa sperare che forse, chissà, le cose cambieranno —, a scacciare il famosissimo istinto di sopravvivenza che, si sa, viene fuori proprio all’ultimo momento forte e chiaro come il pianto di un bambino schiaffeggiato appena venuto al mondo, ecco che ti lasci cadere, ti lasci andare ad un istinto che non avevi mai immaginato.
Ci sono verità che uccidono sia chi le racconta, sia chi le tiene per sé. Non esistono rifugi in cui nascondersi da sé stessi o proteggersi dagli altri.
La seconda opzione invece è fermarti. È quella più abitudinaria, una situazione di perenne stallo, di standby fisico e mentale, dove passi le intere giornate ad aspettare un tempo che sembra non passare mai. C’è chi si impasticca fino ad essere cerebralmente morto e fisicamente steso, passando intere giornate a dormire con la speranza di svegliarsi un giorno e sentirsi dire: «Oggi vai a casa».
E c’è invece chi una casa non ce l’ha e decide di fermarsi perché fuori, alle volte, fa più paura. O c’è chi non riesce ad adattarsi ad un mondo che corre troppo veloce e sembra non esserci più spazio per sentimenti e valori, solo schermi e realtà virtuali, occhi aperti che non vedono, non si accorgono più di chi gli sta a fianco e di che cosa esso stesso ha dentro. Occhi spalancati ma spenti.
C’è chi ha vari motivi per fermarsi, fatto sta che un giorno, che ti piaccia o no, da qui uscirai e, se non avrai fatto nulla, se non ti sarai guardato dentro mai cercando di capirti e cercando di lavorare su ciò che stona e ti danneggia nella quotidianità, se avrai provato a scappare da tutto e da tutti senza renderti conto che non si può, che hai girato solo intorno per ritrovarti sempre allo stesso punto che non è la partenza, né l’arrivo, ma solo tragitto, lo stesso identico tragitto, se avrai solo e solamente aspettato la fine di questo agonizzante giro di macabra giostra, sappi che, se non cambierai nulla dentro di te, non cambierà nulla nemmeno fuori da te. Cambieranno le persone, i loro abiti, le stagioni, cambieranno il luogo, il posto, il paese, le situazioni, ma continuerai a rivivere le stesse cose e continuerai a farti le stesse domande: «Perché a me?», dando la colpa a qualcosa, qualcuno, magari alla vita, commisurandola e dicendo: «Povero me, sono sfigato, capitano tutte a me!».
Potrei dilungarmi ora scrivendo, come si dilunga chi ha scelto di fermarsi, ma io ho fatto un’altra scelta, ho scelto di trasformare questa esperienza in materiale costruttivo: ho scelto di mollare solo le brutte abitudini, quelle che mi impedivano di fermarmi solo a pensare a come trasformare uno scuro e spaventoso abisso in un immenso e profondo mare in cui allevare il mio essere. Un luogo con assenza di luce e assenza di rumore, così da non avere addosso occhi indiscreti e giudizi inutili.
Benvenuti nell’estremo paradosso, dove la fine può diventare un inizio.
Il dolore, la forza, la rabbia, la determinazione, uno sbaglio, un’opportunità.
Molto più semplicemente. Dove non vedi la merda solo perché è merda, e fa schifo, e puzza, ma dove la vedi come concime che magari, sì, fa schifo e puzza, ma fa anche nascere un intero raccolto, un campo di fiori, la vita.
Dipende tutto da te e dalla prospettiva con cui scegli di guardare.
di Giulia Boschin *
* Insieme con Giulia Boschin , che ha scritto il testo, le autrici dell’editoriale sono Angelica, Antonella, Marceby, Paola, Patrizia, Rosaria , e tutte le donne della Casa di Reclusione Femminile Venezia - Giudecca