· Città del Vaticano ·

L’incontro con alcune donne detenute che fanno da guide ai visitatori

Al tavolo della vita

 Al tavolo della  vita  ODS-023
06 luglio 2024

Ieri per la prima volta sono entrata in un carcere. Mi aspettavo di sentire le porte chiudersi alle mie spalle tutte le volte che passavo, di vedere mazzi di chiavi grossi come pugni e di sentire risuonare nel silenzio quelle chiavi, nelle grida quei pugni. Mi aspettavo di voltarmi e vedere ovunque sbarre e pensare: Dio mio, questo è l’inferno! Ma nel carcere della Giudecca non ho trovato nulla di tutto questo. E non sei felice? mi domandi sedendoti a tavola. Non lo so, ti dico. E cosa hai trovato invece alla Giudecca? Delle persone, ti dico, poi ti guardo nei tuoi occhi buoni che non hanno paura di vedermi anche quando sono triste e non ho niente di bello da dirti. Ho trovato delle maschere.

Sai che mi ha detto una delle sette signore che ho incontrato, una di queste sette recluse con cui ho parlato? Fuori da qui, mi ha detto ieri Antonella, fuori dal carcere tutti indossano una maschera. E lo sai, subito mi sono venuti in mente i chioschi, le bancarelle, i negozi che ho visto per tutta Venezia, così pieni, così impastati di maschere, bellissime maschere veneziane. La cosa che mi ha sempre colpito delle maschere è che gli mancano gli occhi, dici mentre avvicini la tua sedia alla mia. Non so se l’hai notato: le maschere hanno tutte quello sguardo un po’ alla Modigliani che più le guardi più ti chiedi: cosa c’è dentro? Cosa c’è dietro? mi sono chiesta ieri per tutto l’incontro con queste sette signore che illustrano ai visitatori il Padiglione della Santa Sede alla Biennale, sette signore che nel carcere della Giudecca vivono, chi da pochi, chi da tanti anni.

Quello di ieri era un incontro, ti dico, e ogni incontro è una festa, e loro sette erano le festeggiate, e io avrei voluto parlare con le festeggiate, sapere da ciascuna di loro chi sei, che cosa rappresenta per te questo padiglione che rompe — dovrebbe rompere? — le sbarre che separano noi da loro. Noi chi? mi domandi. Noi, ti dico, noi che non paghiamo mai fino in fondo per i nostri errori, noi che siamo incuranti del prossimo e non c’accorgiamo neanche di cosa produce, di che cosa resta della nostra indifferenza, del nostro alzarci da tavola quando siamo ancora tutti seduti e la festa — ogni incontro è una festa — non è ancora finita e così non ci accorgiamo che forse la persona accanto a noi non sta bene, non è felice, forse in quel momento si sente un disastro.

Lo sai, ieri nel presentarsi Paola, la più anziana delle sette signore, mi dice: Io sono un insieme di cadute e fallimenti. E io vorrei dirle: Benvenuta nel club! ma non voglio interromperla, non voglio interrompere nessuna di loro. E così, dopo Paola, si presentano Antonella, Rosaria, Angelica, Marceby, si presenta Patrizia e, alla fine, si presenta anche Giulia e l’incontro prosegue, con tutte le difficoltà di mettere insieme, attorno a uno stesso tavolo, queste sette donne così diverse, la festa prosegue con tutte le difficoltà di mettere attorno a uno stesso tavolo noi e loro, perché noi stiamo fuori e loro stanno dentro, impossibile ignorarlo, noi siamo liberi di fare ciò che vogliamo, mentre loro anche per prendere una boccata d’aria devono chiedere il permesso.

In quell’ora e mezzo di incontro avverto — tutte avvertiamo — quanto sia difficile uscire dai rispettivi ruoli, spogliarsi dalle maschere che come sbarre ci impediscono di vedere l’altro nella sua verità, nella sua umanità. Forse quelle maschere di cui Antonella parla non le indossano solo quelli fuori dal carcere, le indossiamo anche noi, noi tutti in questo carcere, noi tutti in questo padiglione, noi tutti in questa Biennale, noi tutti in questo incontro, mi dico, forse non possiamo fare a meno di indossarle, di stare sedute attorno a questo tavolo — a ogni tavolo — con addosso maschere intessute di paure e aspettative, desideri e delusioni. Così, mentre le sette signore parlano, mi viene il dubbio, la paura, la certezza che tutto questo incontro — ogni incontro è una festa? —, tutto questo stare sedute attorno a un tavolo, tutto non sia che una perdita di tempo: ma come mi è venuto di pensare che un incontro di un’ora e mezzo avrebbe cambiato la mia vita o quella di una, almeno una di queste sette signore?

Ditemi che cosa vi portate nel cuore di questa esperienza della Biennale? ho chiesto dopo il primo giro di presentazioni. Tutte loro, tutte e sette loro mi hanno detto quanto è stato bello avere a che fare con l’arte, con la bellezza. Per alcune è stata la prima volta. E che cosa vi rimarrà, cosa vi resterà del padiglione quando la Biennale sarà finita e, inevitabilmente, i riflettori su di voi, sulla realtà del carcere si spegneranno? Mi porterò nel cuore un pezzo di Biennale. Mi porterò nel cuore un pezzo di arte. Mi porterò nel cuore un pezzo di bellezza. Mi porterò nel cuore un pezzo di me che non conoscevo ancora. Così mi hanno risposto.

Allora, mi dici, senza alzarti dal nostro tavolo così diverso da quello dell’incontro di ieri, eppure così uguale, allora qualcosa di bello ti è rimasto, non è stato tutto una perdita di tempo? No, ti dico, mi sono rimaste loro, le festeggiate, loro che nonostante tutte le difficoltà di un incontro tra mondi distinti e separati da sbarre che non sono solo quelle alle porte o alle finestre, ma sono le sbarre che abbiamo sugli occhi e nel cuore, sbarre con cui vediamo e sentiamo il mondo, sbarre che tante volte rendono questo mondo un carcere, nonostante tutto questo loro sette sono rimaste sedute a quel tavolo, al tavolo del nostro incontro, della nostra festa, al tavolo della vita attorno al quale tutti sediamo, che ci piaccia o no, con accanto chi ci piace o no, eppure non ci alziamo, non ce ne andiamo finché la festa non è finita.

Quindi, mi domandi prima di apparecchiare la tavola, che cosa resta? Restano da fare i ringraziamenti, ti dico. Ringrazio tutte e sette le festeggiate della Giudecca. Ringrazio Giulia per essere venuta all’incontro anche se non le andava, la ringrazio per essere rimasta a quel tavolo anche se per lei è stata una perdita di tempo, la ringrazio per aver dato voce a quella parte chiamata Qui tutto fa schifo che insieme alla parte Qui tutto bello compone il quadro, la maschera, l’opera d’arte chiamata Questa sono io, Questa sei tu, Queste siamo noi.

Ringrazio Paola per avermi ricordato che ci sono delle carceri in cui veniamo rinchiuse e delle carceri in cui ci rinchiudiamo quando smettiamo di vivere, quando di fronte alle cadute, alla sconfitta, di fronte a un uomo malato o recluso che ti dice: Perché tutto questo? tu non sai cosa dire, solo pensi che tutto, tutta questa vita, tutti questi incontri che facciamo non sono una festa, ma una perdita di tempo. Ringrazio Angelica per la sua dolcezza, ringrazio Rosaria per la sua voglia di mettersi in gioco anche quando questo gioco è una partita persa in partenza, come pensano in tanti, e ringrazio Marceby, sì, Marceby ti ringrazio per quello che mi hai detto: Grazie a questo padiglione, grazie a questo progetto ho imparato che volere bene è anche sapersi fare da parte. E in quell’ora e mezzo che siamo state insieme ho visto quanto tu, Marceby, ti sei fatta da parte per le altre, quanto le hai lasciate parlare sapendo che come in una cella anche in un incontro lo spazio è ristretto e se si vuole essere insieme bisogna fare spazio a tutte, a quelle che sgomitano e a quelle che vorrebbero scomparire, perché c’è un solo modo per stare insieme: starci tutte.

Infine, ringrazio Patrizia per avermi aperto il suo cuore come si fa con uno straniero che senti subito che non è un estraneo, ti ringrazio di avermi mostrato che si può essere madre anche quando i figli sono lontani, che si può ricostruire una casa anche dietro le sbarre, sapendo che in un carcere come in un appartamento non è sempre tutto bello.

E alla fine di tutto ringrazio te Antonella, tu che apri questa festa veneziana parlando di maschere e la chiudi parlando… tu sai di cosa. Non so se ti ho voluto bene… Tu mi vuoi bene. Sì, Antonella, non so se ti voglio bene perché mi ricordi mia madre. Non so se ti voglio bene perché parli di maschere, ma non le indossi mai o solo perché mentre mi parli io non vedo le sbarre alle porte né alle finestre, io vedo solo le sbarre che tutte e due abbiamo dentro, noi due eremite che dicono al mondo: Lontano da me! Ma ogni volta che quel prepotente ci arriva addosso noi rimaniamo lì, non ci scansiamo, non ci alziamo mai da tavola durante l’incontro — e ogni incontro è una festa — perché sappiamo che il successo della festa — di ogni festa — dipende dagli invitati, dipende da te e dipende da me, e da tutte le altre che sono rimaste sedute con noi a questo tavolo traballante, che è stato il nostro incontro di ieri. Tu lo sai, Antonella, sai che forse ci saremmo incontrate solo per un’ora e mezzo di una vita fatta di mezzi errori, mezze verità, mezzi sorrisi, ma in questa frazione di tempo e di emozioni, in questa perdita di tempo e di occasioni, tu e io siamo state insieme, tu e io restiamo insieme. Ecco che cosa resta.

di Violante Sergi