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Hic sunt leones

Africa in balìa del disordine internazionale

 Africa in balìa  del disordine internazionale  QUO-146
28 giugno 2024

L’attuale congiuntura internazionale, sia dal punto di vista geopolitico come anche economico, dopo oltre trent’anni dalla fine della Guerra fredda, sta modificando strutturalmente lo scenario mondiale. Infatti, a quella che era la rigida contrapposizione dei blocchi contrapposti (Usa-Urss) fondata sulla deterrenza, non è poi seguita una diffusione progressiva, a livello planetario, delle istituzioni liberal-democratiche. In estrema sintesi, non c’è stata una “vittoria” delle condizioni ispirate al diritto internazionale sui totalitarismi, ed è più aderente alla realtà prendere atto della diffusione sempre meno arginata di una finanzia predatoria che certamente condiziona – quanto non impone – le scelte politiche, sempre più indirizzate dagli interessi di quanti controllano tale finanza, per non parlare della tecnologia e della produzione di armi delle quali si impone sempre più l’utilizzo.

Di conseguenza, sta di fatto che oggi anche nei rapporti internazionali siamo in presenza di una competizione, in molti casi fortemente divisiva e violenta, tra una molteplicità di attori che vanno dalle superpotenze (Stati Uniti, Cina e Russia) ai grandi player regionali (India, Turchia, Iran, Arabia Saudita…) che suppliscono al loro minor peso con una notevole carica di spregiudicatezza. A questo fa riscontro una pericolosa deriva verso l’irrilevanza degli organismi sopranazionali che sarebbero invece indispensabili per governare un mondo ormai multipolare.

Ecco che allora la guerra russo-ucraina rappresenta la cartina al tornasole del quadro geopolitico, quindi solo l’elemento più visibile e dirompente di un vero e proprio disordine d’insieme, il cui primo e palese effetto è l’arretramento delle ragioni della pace.

In questo contesto, il continente africano risente delle turbolenze in atto, riscuotendo una crescente attenzione, in alcuni casi invasiva, da parte dei grandi attori internazionali. Le ragioni sono molteplici e, come abbiamo già scritto su questo giornale in più circostanze, ascrivibili, almeno in parte, alla ingente presenza di commodity che vanno dalle fonti energetiche, ai minerali preziosi; dalle terre rare necessarie alle produzioni tecnologicamente avanzate, al fatto che i due terzi delle terre arabili e non ancora utilizzate del pianeta sono proprio in Africa.

Ma proprio perché stiamo parlando di un continente che rappresenta il blocco macroregionale più consistente all’interno delle Nazioni Unite (il 28 per cento dei voti), non vanno sottovalutate le deliberazioni delle sue rappresentanze diplomatiche in seno all’Assemblea generale. Esse, infatti, pur non avendo un effetto pratico, esprimono comunque l’orientamento generale del consesso delle nazioni, diventando così uno strumento importante d’influenza nei confronti, ad esempio, delle opinioni pubbliche occidentali o del resto del mondo. Motivo per cui sono molti coloro che corteggiano i governi africani con proposte più o meno allettanti di cooperazione.

Purtroppo, in queste relazioni bilaterali tra ricchi e poveri, le priorità e gli interessi sono talvolta proficui, ma anche in alcuni casi così divergenti da rendere i tentativi di concertazione parte del problema più che della soluzione. Se gli attori locali possono avere chiavi più immediate per soddisfare la crescente domanda di risorse africane, è anche vero che essi stessi sono coinvolti in reti di alleanze che riducono il loro grado di neutralità e affidabilità nei rapporti con i player di mezzo mondo. Emblematico è il caso del Sudan, per non parlare della Repubblica Centrafricana o dell’intera fascia saheliana, dove i partner di ieri non risultano essere più quelli odierni, al punto tale che qualsiasi decisione o accordo va preso con beneficio d’inventario.

Pertanto, la divergenza tra i processi formali di costruzione dei rapporti e le dinamiche reali di scambio, incardinate su strategie informali di attori sociali e politici (regimi inclusi), rappresenta sempre e comunque una grande incognita, sia dal punto di vista dell’organizzazione e del controllo degli spazi, sia dell’estrazione e accumulazione delle risorse.

La questione di fondo è comunque legata all’imposizione di un modello economico-finanziario penalizzante a livello globale, particolarmente in Africa. Infatti, questo continente nel suo complesso è influenzato dalla “deregulation”, vale a dire da un mercato contaminato dall’ideologia liberista imposta a ogni piè sospinto, da molti di quei Paesi che vorrebbero portare l’Africa nella loro rispettiva area d’influenza. È singolare che si chieda, anche giustamente, l’immediata sospensione delle attività belliche e non s’intervenga contro la speculazione finanziaria sulle commodity, i cui effetti devastanti si riverberano a livello globale, soprattutto nel Global South di cui il continente africano è parte integrante.

La dice lunga l’aumento dei costi di servizio del debito con il risultato che la sua cifra assoluta è prossima ai 1200 miliardi di dollari; una cifra debitoria elevata se raffrontata al valore complessivo del Pil africano che è di circa 3 trilioni di dollari. Per avere un confronto, basti pensare che quello dell’Unione europea (Ue) è di 16 trilioni e mezzo. E preoccupa che all’immediata vigilia del Giubileo la questione del debito africano (non solo con gli Stati, ma anche con gli attori privati) sembri scomparsa dai radar delle opinioni pubbliche.

Ma perché l’Africa possa davvero tutelarsi nella contrattazione con i cosiddetti Grandi della Terra deve necessariamente consolidare l’integrazione politica ed economica dei propri paesi. E qui la responsabilità maggiore ricade sulle classi dirigenti che sono chiamate — e non da oggi — a contrastare lo scarto tra la retorica politica e la realizzazione di programmi. Se la narrativa della cooperazione interafricana è parte di qualsiasi discorso politico delle leadership locali, non lo è altrettanto la cessione di quote di sovranità statale. Per carità, sappiamo bene quanto questo indirizzo risulti difficile, per non dire assai arduo, da accettare anche in Europa (la dicono lunga i risultati delle recenti elezioni europee), non foss’altro perché la conservazione della decisionalità in leadership nazionali centralizzate viene ritenuta un ingrediente-chiave della costruzione del consenso interno.

Ciò non toglie che questa è la strada da seguire nella consapevolezza che la posta in gioco è alta. Infatti, ciò che impedisce una svolta definitiva nello sviluppo dell’Africa (oltre al tema della crescente conflittualità nelle aree di crisi come il Corno d’Africa e i Grandi Laghi che comunque meritano un discorso a parte) è la mancanza di un’adeguata sinergia al proprio interno. Sicuramente alcuni progressi sono stati registrati in questi anni nell’ambito dell’Unione africana (Ua) come, ad esempio, nel caso dell’African Continental Free Trade Area (Afcfta), un’area di libero scambio continentale a servizio di un miliardo e 400 milioni di abitanti. Anche se si tratta di un punto di partenza e non certo di arrivo, come del resto è stato ed è ancora oggi per l’Europa, questa è certamente un’iniziativa virtuosa che merita d’essere sostenuta da coloro che si candidano ad essere partner privilegiati dell’Africa in questo primo segmento del Terzo Millennio.

Una cosa è certa: per quanto risulti complessa l’esegesi delle dinamiche che legano i Paesi africani agli attori esterni che a questa stessa macroarea si mostrano sempre più interessati, è evidente che le relazioni sono storicamente e strutturalmente asimmetriche. Pertanto, la competizione geopolitica, che vede coinvolti, come abbiamo visto, i grandi player internazionali, se da una parte pone l’Africa in una condizione di debolezza, dall’altra potrebbe paradossalmente offrirle l’occasione per il riscatto. In che senso? La mobilitazione di risorse finanziarie esterne per colmare il deficit infrastrutturale (basti pensare che il 4 per cento delle attività nell’economia formale africana sono condizionate da carenze nell’accesso all’elettricità) se fosse gestita da un’unica cabina di regia continentale e fosse dotata di adeguati mezzi di controllo, potrebbe utilizzare questi investimenti per generare nuovi redditi incrementando la produttività industriale, agricola, manifatturiera, creando nuovi posti di lavoro e opportunità di formazione. Una sfida per tutti!

di Giulio Albanese