Il secondo episodio di Inside Out, il geniale film d’animazione della Pixar, riprende il discorso da dove l’aveva lasciato nove anni fa. Gioia e Tristezza, le due principali emozioni personalizzate del primo episodio, relativo all’infanzia della piccola Riley, dopo essersi amabilmente combattute scoprono che il loro destino è integrarsi, mischiarsi in quel guazzabuglio che è la vita.
Dunque, proprio come era finito, sulla soglia della pubertà, il primo episodio, così comincia il secondo, con la stretta di mano tra le due e Gioia che dice/promette alla sua collega: «Dove vado io, vieni anche tu». Avvio promettente dunque, ma bastano pochi minuti e tutto si scompiglia con l’irruzione in campo di altre, temibili, emozioni: Invidia, Noia, Imbarazzo e soprattutto Ansia, destinata a prendere il comando delle operazioni in quella scombinatissima e ingrata età dell’adolescenza. Se il primo capitolo era tutto centrato sullo scontro/incontro tra Gioia e Tristezza, ora è la volta della guerra tra Gioia e Ansia con continui rovesciamenti di fronte. Il film, divertentissimo, mantiene le promesse, grazie a un ritmo incalzante e la caratterizzazione dei personaggi formidabilmente disegnati dagli artisti (sì, artisti) della Pixar, in particolare l’ingombrante e inevitabilmente impacciato Imbarazzo e la raffinatissima Noia, inevitabilmente francofona.
La “morale” di questa favola tutta giocata inside, dentro la mente e il cuore di Riley, non si allontana da quella del primo episodio: è l’unione che fa la forza e nessuna emozione può considerarsi assoluta, pensando di prevalere e “correre” da sola; il cammino va fatto insieme, integrandosi. Una morale si potrebbe dire “sinodale” per usare un linguaggio ecclesiale o se vogliamo, “poliedrica”. Proprio come dice Bergoglio: la sfera non rende ragione della complessità della vita, rischia di armonizzare le diverse polarizzazioni ma nel senso di “conformare”, appiattire e omologare spegnendo la vitalità che nasce dalle differenze.
All’inizio del film vediamo che Gioia è fiera di come sta crescendo Riley e cura, accarezza, un “albero” che rappresenta il “sè” dell’adolescente, armonico nelle sue forme e capace di rispondere alle sollecitazioni con la frase: «Io sono una brava persona». Tutta questa purezza non potrà durare a lungo: alla fine del film l’albero si presenta tutto sghembo, poliedrico appunto, perché come riconosceranno le diverse emozioni quando avranno smesso di contrapporsi, ciò che fa di Riley ciò che è sono tutte le sue “sfaccettatture”.
Ci si chiede, dopo questa vorticosa incursione nel caos dell’adolescenza, come faranno gli sceneggiatori della Pixar, ad affrontare il passo successivo e a continuare a parlare al loro pubblico che è rigorosamente limitato ai minori; non sarà facile, considerando che proprio i film (come i libri) “per bambini” sono spesso quelli più profondi e più “universali”.
Manca qualcosa a questa bella ultima avventura della Pixar? Sì, manca la mancanza. È assente la ferita. Quella con la F maiuscola. Qualche piccola ferita la vediamo, più in questo secondo episodio che nel primo, ma sono forti solo quanto basta a incrinare la buona intenzione di diventare “una brava persona”. Ma Riley, come ogni essere umano, merita di più, qualcosa che metta in luce la natura ferita, caduta, dell’umanità, qualcosa che la conduca (e noi con lei) sulla soglia del Mistero. Niente di tutto questo nei primi due episodi di Inside Out, nessun riferimento alla trascendenza o almeno alla spiritualità. Siamo ancora come nei primi minuti del film Barbie, quando ancora non sono arrivati quegli “improvvisi pensieri di morte” che feriscono, scompigliano e al tempo stesso mettono in moto la storia, diventando il calcio di inizio di un’avventura veramente umana. Vedremo se nel seguito della fortunata serie al puro divertimento si affiancherà anche qualcos’altro, possibilmente con l’iniziale maiuscola.
di Andrea Monda