· Città del Vaticano ·

Storie di resilienza di tre donne vittime degli estremisti islamici di Boko Haram in Camerun

Quando le lacrime
diventano una difesa

 Quando le lacrime diventano una difesa  QUO-144
26 giugno 2024

In comune hanno il villaggio, Kolofata — nel nord del Camerun, al confine con la Nigeria — e le atrocità subite da parte degli estremisti islamici di Boko Haram. È così che le vite di tre donne, completamente diverse tra loro, prendono una piega tragicamente simile. Le chiameremo con nomi di fantasia, per la loro sicurezza.

È il 2013, Fatna viene svegliata nel cuore della notte dall’irruzione in casa dei miliziani che prendono il figlio di 22 anni e lo sgozzano sotto gli occhi dei genitori. Il padre fugge via, Fatna resta sola. «Sono rimasta lì a guardare mio figlio che giaceva in una pozza di sangue — ricorda — quel giorno è stato come se la terra mi fosse caduta sulla testa. E non potevo fare nulla. Mio figlio è morto proprio davanti a me... Volevo morire anch’io».

Maimouna, giovane mamma di due figli, ha vissuto un altro orrore. I jihadisti entrano nel villaggio e uccidono il marito. Lei fa ricorso alle poche forze rimastele per fuggire. «Non so come io sia riuscita a scappare quel giorno — racconta — quando hanno ucciso mio marito ho iniziato a correre nella boscaglia con i miei due figli, uno di 3 anni e l’altro di uno. Era la stagione delle piogge, fuggendo siamo arrivati in un punto in cui c’era un fiume in piena, lo abbiamo attraversato, tenevo il bimbo più grande per mano, il più piccolo era sulla mia schiena, la corrente me lo ha strappato. Ho continuato ad attraversare e sono arrivata sull’altra sponda del fiume. Ero esausta, pensando di essere al sicuro ho cercato un posto per sdraiarmi con mio figlio. Quando mi sono svegliata, ho capito che anche l’unico bambino che ero riuscita a salvare era morto. In un giorno, quel giorno, ho perso tutta la mia famiglia».

Bossoni è stata ostaggio di Boko Haram. Ad appena 18 anni, è stata rapita, tenuta prigioniera, torturata e violentata dai terroristi, per quasi cinque anni. «Ero sola — ricorda — in balia di questi barbari, giorno e notte. Mi hanno lasciata morire di fame. Sono stata maltrattata in modi che non si possono nemmeno immaginare. Un giorno sono scappata. Ho corso per notti intere, senza sapere dove andare, ma dovevo fuggire, se fossero riusciti a trovarmi, sarebbe stato per sottopormi ad altre atroci torture fino alla morte».

I racconti di Falta, Maimouna e Bossoni riassumono il trauma che continua ad opprimere le donne di questa zona del Camerun. Le loro storie sono tanto atroci quanto oltraggiose. I fatti sono di 11 anni fa, ma il dolore è ancora molto vivo. Al pari di queste tre donne, molte altre, dall’inizio di questa lunga crisi, hanno vissuto lo stesso dramma e tutte hanno perso una o più persone care. Nonostante le loro vite siano precipitate dalla luce all’oscurità, con danni morali e traumi psicologici significativi, hanno deciso di organizzarsi in gruppi per sfidare le avversità. «Nella nostra associazione Le cœur d'une mère ci aiutiamo molto — spiega Maimouna — ci sosteniamo a vicenda. Le nostre prove comuni ci incoraggiano a unirci per aiutare altri sopravvissuti».

«Le nostre lacrime sono diventate la nostra difesa — conclude Bossoni — e ora ci sentiamo più forti per affrontare il futuro, accettando quello che ci è successo».

da Maroua
Augustine Asta