· Città del Vaticano ·

La buona Notizia
Il Vangelo della XIII domenica del tempo ordinario (Mc 5, 21-43)

Due miracoli

 Due miracoli  QUO-143
25 giugno 2024

Marco scrive una sequenza cinematografica in un’epoca in cui il cinema non esiste... In una scena che riprende Gesù che sbarca sulla riva, Marco inserisce nel cuore di una prima azione una seconda azione: Giàiro, capo della sinagoga, chiede a Gesù di venire a curare sua figlia che sta morendo; Gesù accetta ma, in mezzo alla folla, viene trattenuto da una guarigione che opera quasi a sua insaputa, quella della donna affetta da emorragia; perciò la figlia di Giàiro muore prima che Gesù raggiunga la sua casa, il che rende il suo spostamento inutile; eppure Gesù insiste, esige di rimanere solo con il cadavere e rianima la bambina. Il racconto mostra un intensificarsi dei suoi poteri, visto che passa da una guarigione a una resurrezione.

I due miracoli si differenziano non solo per il loro grado, ma anche per il loro significato. Il primo — fermare le continue emorragie della donna — si compie senza che Gesù lo abbia voluto o saputo. La galilea tocca le sue vesti — nemmeno il suo corpo — e questo basta ad alleviarla. In quel momento Gesù percepisce solo che qualcosa lo attraversa: qualcosa esce da lui, un potere di cui lui è soltanto il medium. Così dice a quella donna che la sua fede l’ha salvata. Come affermerà un mistico ebreo della scuola di Safed nel xvi secolo: «non c’è nulla che non discenda dal cielo se c’è una forza che lo desidera». L’ultima speranza che quella malata ha nutrito è stata l’inizio della sua guarigione.

Il secondo miracolo proviene invece da un’altra richiesta, quella di Gesù stesso, che supplica suo Padre di riportare in vita la bambina. Il fatto straordinario avviene, ma cosa ancor più strana, ecco cosa Gesù alla fine dice alla famiglia: «Non ditelo a nessuno».

Gesù detesta passare per un produttore di miracoli. Perché? A quel tempo c’è solo questo attorno a lui: i taumaturgi, i guaritori, i maghi, gli operatori di prodigi pullulano! Simili atti non qualificano dunque Gesù in particolare come figlio di Dio; peggio ancora, confondono il suo messaggio. Certo, i Vangeli sottolineano la sua singolarità: i suoi miracoli non sono collegati a chi li opera in modo narcisistico al fine di assicurare la sua gloria e la sua pubblicità secondo il metodo comune, sono riconducibili soltanto a Dio o al malato che prega, mentre Gesù resta l’intercessore. A differenza dei guaritori pagani, Gesù non attribuisce mai a sé stesso il potere di salvare; tale facoltà gli viene data da Dio. In lui Dio è all’opera, Dio è al lavoro.

A Gerusalemme, quando i passanti sarcastici che assistono alle sue cadute durante la via crucis e poi al suo supplizio sul Golgota, chiederanno a Gesù di compiere miracoli, lui non li compirà, manifestando la sua debolezza piuttosto che la sua potenza. Perché in quel momento è un uomo; un unico miracolo conta o conterà: la sua Resurrezione.

In breve, se i suoi miracoli esistono, Gesù non arriva mai a vantarsene. Ai suoi occhi, non è a motivo dei miracoli che si deve credere al suo insegnamento.

Eppure in seguito, nel corso della storia cristiana, nei momenti turbolenti, alcuni brandiranno la «prova dei miracoli», compreso il grande Blaise Pascal. A me, pensatore credente, questa idea non piace. Nei racconti di miracoli non vedo prove ma appelli: riponiamo la nostra fiducia nel potere di Dio. 

di Éric-Emmanuel Schmitt