La terrazza della casa guarda verso buona parte della Città Vecchia di Gerusalemme. E si trova praticamente sulla green line, la linea di demarcazione stabilita nell’armistizio del 1949 tra Israele e Giordania. Un confine tra due mondi, come pure al confine oggi si collocano gli scritti di Nathan Thrall, lo scrittore ebreo, vincitore del premio Pulitzer 2024, con il libro Un giorno nella vita di Abed Salama, di cui il nostro giornale ha già trattato (vedi L’Osservatore Romano del 5 giugno scorso). Lo spunto iniziale del libro è noto: la tragedia di un incidente stradale in cui muoiono bambini palestinesi in gita scolastica. Si sarebbero forse potuti salvare se i soccorsi non fossero stati ritardati dai muri, dai check point, dalle assurde misure di sicurezza che separano i due mondi pur così contigui.
Mr. Thrall perché ha deciso di scrivere un libro su questa tragica vicenda di dodici anni fa?
Ci sono più ragioni. Sicuramente questa storia mi aveva molto colpito a suo tempo. Ma c’è di più. Spesso si dimentica che Gerusalemme è il cuore del problema degli insediamenti nelle terre occupate nel 1967. Spesso pensiamo agli insediamenti come qualcosa lontano da qui, ma la maggioranza dei settlers in realtà vive nell’area metropolitana di Gerusalemme. E allora raccontare questa storia era per me un modo per raccontare la vita quotidiana in questa “terra di mezzo”, che pure rimane sconosciuta a molti. Anche qui in Israele. Una vita che non esito a definire di segregazione.
Fuori dalla finestra intanto vediamo passare un numeroso gruppo di Haridim, di ebrei religiosi ortodossi, che da Mea Shearim si dirigono verso la Città Vecchia. Chiediamo un commento a Thrall.
Anche loro vivono segregati. Una segregazione volontaria, a differenza di quella dei palestinesi, ma pur sempre segregazione. Il problema oggi in questa terra è proprio quello dei compartimenti stagni, inevitabilmente queste opposte segregazioni e non solo queste, che non comunicano, finiscono per collidere. Quindi il primo obiettivo che mi sono posto scrivendo questo libro è stato quello di far conoscere come vivono realmente i palestinesi a chi li ignora pur vivendo magari solo a poche centinaia di metri di distanza. Comprenderà che, a questo fine di conoscenza reciproca, non c’è di meglio che raccontare una storia molto umana, la storia di un padre e un figlio, di un padre che perde il figlio. C’era poi un secondo livello che era l’ambizione di raccontare 76 anni di conflitto palestinese fuori delle categorie politiche, con lo sguardo di chi questo conflitto lo soffre ormai da tre, o anche quattro generazioni. Infine, volevo riuscire a spiegare il sistema di controllo che si esercita quotidianamente in Palestina, partendo dal racconto di un incidente che non fu casuale, estemporaneo, improbabile. Vede, avrei potuto raccontare per esempio il massacro di Kafr Qasim del 1956 (49 arabi che tornavano dal lavoro uccisi in quel villaggio lungo la green line, perché avevano violato un coprifuoco che non gli era stato mai comunicato, ndr.), ma avrei raccontato una storia eccezionale, che prescindeva dall’ordinarietà della vita quotidiana, dall’asfissia del sistema di controllo israeliano nei territori occupati. Non volevo che il lettore usasse precomprensioni politiche, affidandosi all’eccezionalità del caso. No. La storia della morte di quei bambini è tragicamente ordinaria, se non fosse assurdo la definirei: banale. E ho cercato di raccontare la storia senza alcun commento e giudizio. In questo senso il libro è molto un reportage. I fatti poi sono già un giudizio in sé.
Nathan, come è entrato in contatto con Abed, il papà del bambino?
È stato un caso. Amici di famiglia palestinesi sapevano che mi stavo occupando di questa vecchia storia perché non cadesse nel dimenticatoio, e mi dissero di conoscere il padre di uno dei bambini morti. Così un paio di giorni più tardi mi trovai a casa di Abed, ad Anata, che in fondo — e questo è l’assurdo — è un altro mondo a soli quindici minuti d’auto dal centro di Gerusalemme, dove ora ci troviamo. Devo confessarti che questo incontro è stato molto importante, non solo per il libro, ma per me stesso. Mi ha trasformato interiormente. All’inizio io pensavo di fare un libro sui massimi sistemi, sulle condizioni di vita dei palestinesi, ma l’incontro con Abed, un padre come me, mi ha condotto su un piano umano che sovrasta tutto.
Anche se poi attraverso i vari protagonisti del libro, lei racconta in pratica 76 anni di conflitto.
Sì è vero. Quando ho finito il libro ho portato la prima copia, scritta in inglese ad Abed. L’ha sfogliata rapidamente, e con gli occhi rivolti a terra mi ha detto: “in questo libro ci sono storie molto più tragiche della mia, perché hai scelto proprio la mia?”. In fondo, gli ho risposto, nella tua c’è la sintesi di quasi 80 anni di conflitto.
Lungo questi 80 anni entrambe le società sono cambiate profondamente. Ad esempio le religioni hanno assunto in entrambi i campi un ruolo determinante e caratterizzante del conflitto. Pensi all’islamismo di Hamas o di Jihad, o all’ebraismo messianico dei settlers. Come lo spiega?
È un fenomeno che in realtà riguarda tutto il Medio Oriente. Per quanto riguarda il lato ebraico posso dirle che i prodromi di questa deriva c’erano fin dall’inizio. Il messianesimo è stato un vaso di Pandora che si è tragicamente aperto. L’idea che questo Stato sia stato fondato da ebrei laici e secolari è giusta, ma non può tralasciarsi che fin dall’inizio gli ebrei religiosi lo hanno pensato come realizzazione di un imperativo biblico. Certo i fondatori di Israele erano per lo più non praticanti, se non anche non credenti, ma l’ideologia che li ispirava era comunque quella dell’aderenza alla visione messianica di parti della Bibbia. Credo dunque che i semi di questa deriva già fossero presenti dall’inizio. Oggi le — frequenti — campagne elettorali in questo Paese non si giocano sui programmi ma sulla gara a chi è più ebreo. Per la parte palestinese invece credo che l’affermazione dell’islamismo sia derivata dalla percezione di fallimento, di frustrazione, che è progressivamente montata dopo l’occupazione del ‘67. Al fallimento degli Accordi di Oslo. Un fallimento che l’opinione pubblica palestinese imputa alla leadership secolare dell’Olp.
Questa deriva sta producendo comunque una divisione verticale nel corpo sociale israeliano.
Sì. Ma non mi associo al pensiero che queste divisioni, magari accompagnate da fattori economici o demografici, possano condurre ad un’implosione di Israele. Io credo che l’unica vera linea di tendenza a cui prestare attenzione sia il peso sempre maggiore che vanno acquisendo gli Haredim, che già oggi costituiscono il 13 per cento della popolazione (e ancor di più se si considera la sola componente ebraica). E credo che gli Haredim stiano progressivamente accettando il sionismo. E questo potrebbe cambiare anche lo stile di vita degli ebrei secolari in futuro.
Un futuro condannato a rimanere senza pace?
La pace, a mio avviso, sarà possibile solo se imposta dall’esterno. Quando dico imposta voglio dire incentivata. Dagli Usa e dalla Ue innanzitutto. Israele ha dinanzi a sé tre opzioni: dare ai palestinesi una sovranità nazionale sui loro territori (che oggi costituiscono il 22 per cento dell’intero territorio); oppure trasformare il regime d’occupazione in una vera annessione, e, in questo caso, riconoscere pari diritti ai cittadini palestinesi, a cominciare da quello elettorale; oppure infine mantenere all’infinito questo status quo, estendendo gli insediamenti e spingendo sempre più i palestinesi fuori della loro terra. Questa terza soluzione (o non soluzione) è quella che oggi appare meno costosa per Israele. Le altre due sono più “cost effective” e comportano ampi rischi. Solo un intervento esterno incentivante può rendere le altre due opzioni praticabili e convincenti per Israele. Mi auguro che questo avvenga. (roberto cetera)
Da Gerusalemme
Roberto Cetera