«La qualità di una civiltà si misura dal rispetto che ha verso i suoi membri più deboli. Non ci sono altri criteri di giudizio». Sono le parole del venerabile servo di Dio Jérôme Lejeune, medico genetista e primo presidente della Pontificia Accademia per la Vita (Pav), che per l’arcivescovo Vincenzo Paglia condensano «l’importanza e l’attualità della sua ricerca e del suo insegnamento sul piano scientifico ed umano». L’attuale presidente della Pav lo ha ricordato introducendo la presentazione del libro Jérôme Lejeune - la libertà dello scienziato, di Aude Dugast, svoltasi ieri pomeriggio a Roma, nella sede di Palazzo San Calisto.
Alla presenza dell’autrice della biografia da poco tradotta in italiano, monsignor Paglia ho sottolineato come lo scopritore della Trisomia 21 come causa della sindrome di Down sia stato “un anticipatore” della nuova strada avviata da san Giovanni Paolo ii, segnata dall’attenzione sull’importanza di difendere e promuovere la vita umana. Nel 1994 Papa Wojtyła lo nominò, ha ricordato il presule, primo presidente della Pav istituita l’11 febbraio, ma il 3 aprile dello stesso anno lo scienziato morì a Parigi, a 68 anni. Nel 1974 san Paolo vi lo aveva nominato membro della Pontificia Accademia delle Scienze, e nel 1986, san Giovanni Paolo ii lo aveva chiamato a far parte del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari.
Paglia ha usato le parole di Papa Francesco per dire che «Lejeune nel suo lavoro di genetista ha fornito strumenti validi e moderni per contrastare quella troppo diffusa cultura dello scarto che colpisce i fragili e i deboli, e tra tutti gli anziani e i bambini». Perciò, ha proseguito, «mi piace pensare che egli oggi sia al nostro fianco, a fianco del Papa, nel ribadire la dignità preziosa ed inviolabile di ogni essere umano, sempre, soprattutto quando è incolpevolmente colpito da una sindrome genetica».
L’arcivescovo ha ricordato che, grazie alle ricerche del genetista «i genitori dei bambini affetti dalla sindrome di Down» hanno saputo che essa «non era dovuta ad una malattia ereditaria».
La biografia presentata, secondo il presidente della Pav, restituisce Lejeune «nel suo lavoro, nelle sue convinzioni, nelle scelte di vita, nella sua dimensione umana, professionale, familiare». L’arcivescovo ha ricordato la consorte Birthe Lejeune, morta nel 2020, conosciuta personalmente a differenza dello scienziato, «vivacissima anche quando l’Accademia iniziava una sua nuova fase per affrontare le nuove sfide che si pongono davanti a noi, come quella della pandemia». Prendendo a prestito ancora le parole di Francesco, Paglia ha spiegato che «solo in un pianeta non inquinato, dentro un mondo in cui ci riconosciamo davvero fratelli e sorelle tra noi, potranno darsi le condizioni per un autentico sviluppo umano integrale».
Il Pontefice ha offerto la “visione globale” che tutti dobbiamo avere della “Vita” con le due encicliche: Laudato si’ e Fratelli tutti: «una unica grande famiglia umana a cui il Signore ha affidato la custodia dell’unica Casa comune e la responsabilità delle generazioni. Sì, una sola umanità, un solo pianeta». Nel giorno in cui Papa Francesco era «al vertice del g7 a parlare di intelligenza artificiale e pace», Paglia ha concluso rimarcando che Lejeune «sapeva di vivere in un mondo dove la politica e le ideologie puntano a dividere». Ma compito dell’Accademia «è vivere e testimoniare la visione di un mondo nel quale si accolga e si rispetti l’armonia, camminando verso l’unità e la concordia tra tutti, con il criterio del primato da dare ai più deboli e ai più piccoli».
Dopo il presidente della Pav, Jean-Marie Le Méné, membro ordinario dell’Accademia, ha ricordato di aver assistito personalmente «all’ultima battaglia del professor Lejeune contro la morte. La sua ultima preoccupazione era la Pav. Ha chiesto a Dio il tempo per istituirla in modo stabile e per proporre le nomine. Ho trasmesso a Roma alcuni dei nomi che mi aveva dato nel suo letto d’ospedale, poco prima di morire». E ha sottolineato che Lejeune condivideva «con alcuni precursori la visione di un mondo che era diventato incapace di distinguere tra bene e male, anche quando era in gioco la vita umana». Lui che mise in guardia gli scienziati «dalla tentazione di condannare a morte i pazienti per motivi medici».
Nel successivo intervento, Monica Lopez Barahona, membro dell’Accademia e rappresentante della Cattedra “Jérôme Lejeune” di Madrid, ha sottolineato che il servo di Dio ha lasciato «un’eredità duratura nel campo della genetica medica e della bioetica. Il suo lavoro ha cambiato la comprensione dei disturbi genetici e ispirato una visione etica della medicina genetica. La sua vita e opera continuano a essere una fonte di ispirazione per medici, scienziati e difensori della vita, in particolare delle persone con disabilità». Perché «non c’è contraddizione tra fede e scienza»: la prima «ci dà la verità rivelata» e la seconda «fa capire come funziona il mondo. E quando la sua intelligenza gli indicava la strada da seguire, anche se ripida, come difendere pubblicamente la vita dei pazienti e rischiare attacchi violenti, Lejeune non ha avuto paura: l’ha seguita».
Lopez Barahona ha ripercorso infine le tappe del processo di beatificazione di Lejeune, avviato nel 2012: nel 2014 egli è stato dichiarato servo di Dio e nel 2021 venerabile. La Fondazione a lui intitolata nel 1995, ha concluso, «continua la sua missione di ricerca e supporto alle persone con disabilità intellettuale di base genetica, perpetuando il suo impegno per la scienza e la dignità umana». Missione che svolge accogliendo e curando le persone con disabilità intellettuale di base genetica, nella clinica di Parigi che ha assistito già più di 12 mila pazienti, ma anche in Spagna, Argentina e a Nantes. E poi attraverso la ricerca sulle malattie dell’intelligenza di origine genetica, e la difesa della vita e della dignità delle persone, «specialmente le più vulnerabili, che devono essere rispettate dal concepimento fino alla morte naturale».
di Alessandro Di Bussolo