La forza
È intitolata «“Adesso”. Le sfide del cristianesimo» la “3 giorni mazzolariana” che si svolge a Bozzolo, in provincia di Mantova, dal 14 al 16 giugno, per iniziativa dall’Associazione Isacco con il patrocinio, tra gli altri, di parrocchia e Comune di Bozzolo e della Fondazione Mazzolari. Fra i partecipanti, il prefetto del Dicastero per la comunicazione che ha parlato ieri pomeriggio sul tema «La forza della Parola in don Primo Mazzolari». Pubblichiamo ampi stralci del suo intervento.
Don Primo Mazzolari fa parte della mia personale memoria e delle mie radici più antiche che sono in parte mantovane anche se sono nato a Palermo. Fa parte dei racconti che mio padre, che era di Mantova, mi faceva quando io ero poco più che un bambino. Racconti sulla resistenza. E racconti su questo prete di frontiera che dalla Bassa padana riusciva a illuminare — con la sua parola e con i suoi silenzi, con la sua testimonianza caparbia — il cammino della Chiesa e anche della politica.
Pacifista combattente. Ecco due parole che descrivono don Primo. E ci parlano eccome ancora oggi. E che solo le sue parole possono descrivere. È bello ripeterle allora, farle risuonare: «Se invece di dirci che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste, i nostri teologi ci avessero insegnato che non si deve ammazzare per nessuna ragione, che la strage è inutile sempre». Contestatore, ma obbediente. Come chi sa che c’è un tempo per ogni cosa. E che prima della Pasqua c’è un tempo di Passione. Mazzolari era un poeta innamorato di Dio e del prossimo. Per questo le sue erano parole forti. Sapevano vedere la primavera dal primo fiore, il giorno dal primo barlume. Le sue parole furono capaci di tessere una struggente predica del giovedì di Pasqua dedicandola non a Gesù, ma a Giuda, ai nostri tradimenti quotidiani: «Uno dei personaggi più misteriosi che troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo. Vi domando un po’ di pietà per il nostro fratello Giuda. Povero Giuda. Ma io voglio bene anche a Giuda. È mio fratello Giuda».
Il titolo che è stato dato a questo mio intervento su don Primo è «La forza della sua Parola». La parola detta e quella taciuta. La parola scritta e la parola parlata. La parola con la p minuscola e quella con la P maiuscola: la parola di Dio, quella su cui don Prima fondò ogni sua scelta; quella che come diceva il cardinale Carlo Maria Martini ci spiega e ci fa esistere. Perché noi siamo nella sua parola. Viviamo un tempo di parole figlie della vanità, consumate dal frastuono dello spreco. Quelle di don Primo erano — sono — invece parole asciutte, figlie di una fede schietta, esigente, mai arresa. Parole ripetute, e ogni volta nuove, perché vissute. Tessute di vita. Come le lettere che scrisse prestando la sua penna e la sua capacità di scrivere a chi non scrivere non sapeva. Le lettere dal fronte. Le sue erano parole dette con l’anima. Mai una di troppo. Ne leggo alcune. Ne vale la pena. «Lasciate che io vi dica una parola intorno alla guerra [...] è un punto oscuro dell’umanità, la ricapitolazione di tutte le ingiustizie e di tutti i dolori umani. Però, cari fratelli, vi faccio una domanda: trovatemi una giustificazione che Dio vuole la guerra, perché quando si fanno certe affermazioni bisogna anche documentarle. Voi mi direte: ma i popoli cristiani hanno fatto le guerre [...] i popoli cristiani sono come tutti gli altri quando dimenticano il Vangelo, anzi, diventano peggiori degli altri [...] e allora perché volete fare del Padre il massacratore?».
Mazzolari non parlava in nome delle sue idee. Sulla guerra lui stesso conobbe una conversione personale dopo la prima guerra mondiale. Le sue parole erano prese in prestito da Gesù, erano figlie di un incontro che ha cambiato il significato stesso delle parole. Carlo Maria Martini definì don Primo Mazzolari «profeta coraggioso e obbediente, che fece del Vangelo sine glossa il cuore del suo ministero». Per questo le sue parole erano franche, e credibili, coraggiose e umili. Capaci di leggere i segni dei tempi. Erano parole dette con il cuore. Con la forza e la fragilità del cuore. Parole capaci di descrivere ciò che gli occhi non sanno più vedere. Anche i vuoti, le mancanze, le sofferenze. Parole figlie del camminare, dell’incontrare, del saper aspettare. Parole che nessun calcolo, nessun algoritmo avrebbe saputo scrivere. Parole forti, certo. Ci voleva coraggio per dirle.
Lo stesso coraggio che ci chiede Papa Francesco oggi. Il coraggio di chi sa andare contro-corrente. Il coraggio di chi cerca davvero la verità. Di chi crede che la libertà non sia seguire i condizionamenti. Il coraggio di chi è libero dai pregiudizi, e per questo coraggioso.
Ma da dove veniva la forza delle parole di don Primo se non dal Vangelo? Nel nome di chi parlava se non in quello di Gesù? E anche Gesù che insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi (cfr. Marco, 1, 22), perché parlava in nome del Padre. Parlava come figlio. Non si alzava su un piedistallo, semmai il contrario. «Il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire» (Marco, 10, 45). La tentazione sempre dietro l’angolo è quella di confondere l’autorità con il comando, l’autorevolezza con l’autoritarismo.
Le parole di don Primo ci dicono che bisogna essere uomini e donne liberi. Liberi dalle tentazioni narcisiste. Che ragionano con libertà e non hanno paura della libertà. Che cercano il confronto. «Molti temono che la discussione prenda la mano all’azione. In certi spiriti superficiali purtroppo è possibile. Ma nei cuori profondi che vivono con pura passione questa grande ora cristiana (cuori che sentono in tal maniera sono legioni dentro e ai margini della Chiesa), la discussione, anche se vivace, è sempre una protesta d’amore e un documento di vita» (cfr. Lettera sulla parrocchia, 1937, ora in Per una Chiesa in stato di missione, Fossano, 1999).
Quanta analogia fra le parole di don Primo e il magistero di Papa Francesco. Quanta attenzione all’uomo e non alle ideologie, quanto amore per la politica come servizio, la più alta forma di carità. Papa Francesco lo ha appena ripetuto ai grandi della terra, al G7 : «Può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica? [...] La nostra risposta a queste ultime domande è: no! La politica serve! Voglio ribadire in questa occasione che “davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato [...] la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione e ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura”».
Tornano in mente le parole di don Primo sulla crisi delle democrazie: «Non si salva né si fa democrazia perdendo l’uomo, come veniamo facendo in Italia e dappertutto. Non mi spaventano le strade poco sicure, l’ordine che non c’è, la giustizia che non c’è; mi spaventa la scomparsa, la morte dell’uomo. Sta spegnendosi la dinastia che vale più di ogni altra, la sola che ha il diritto di regnare, l’unica che possiede le chiavi del Regno di Dio. Antropocentrismo? No, umanesimo senza mutilazioni, né in basso né in alto. Democrazia, ordine, pace, benessere. Se manca l’uomo, miti pericolosi che ci riportano al mondo della violenza. Neanche la felicità si impone. Nessuna più grande infelicità della felicità comandata. L’eccessivo potere dello Stato, dei partiti e delle fazioni non è che la misura del crescente spegnimento dell’uomo» (cfr. Questa democrazia, 25 settembre 1946, in Come pecore in mezzo ai lupi, Chiarelettere, 2011, pagina 10).
di Paolo Ruffini