C’è un’esperienza che generazioni di romani hanno sperimentato con naturalezza fin da piccoli: incontrare il Papa laddove vivono, nelle vie, nelle piazze, nei luoghi che sono quasi la seconda pelle di una persona (per chi scrive successe a nove anni, quando Giovanni Paolo ii visitò la parrocchia Santa Monica di Ostia). A noi romani, credenti e non, la figura del Papa “ci appartiene”. Lo sentiamo nostro concittadino. È parte integrante della nostra storia civica oltre che religiosa, della nostra vita comunitaria, perfino del nostro immaginario collettivo. Polacco, tedesco, argentino... ma dal giorno in cui si affaccia dalla Loggia centrale della basilica di San Pietro diventa romano.
Ecco perché la visita di un Pontefice al Campidoglio non è solo un evento suggestivo e di alto valore simbolico, ma è anche il momento per ricordare concretamente cosa è Roma e perché — nonostante i suoi tanti problemi — sia unica al mondo. Con tale viaggio di pochi chilometri non si accorciano solo le distanze tra i due colli, il Vaticano e il Capitolino, ma si rilancia la capacità di irradiazione di quei valori — tra tutti lo spirito di ospitalità e accoglienza verso ogni fede e cultura — che hanno reso l’Urbe non solo un luogo ma pure un messaggio positivo per tutta l’umanità.
Francesco ha sottolineato questo peso specifico di Roma fin dall’inizio del suo intervento nell’Aula Giulio Cesare il 10 giugno scorso, nella sua seconda visita all’Assemblea cittadina dopo quella del 26 marzo 2019. Fin dalla nascita, ha osservato il Papa, Roma «ha avuto una chiara e costante vocazione di universalità. Per i fedeli cristiani questo ruolo non è stato frutto del caso, ma è corrisposto a un disegno provvidenziale». Parole che si arricchiscono di forza e significato a sei mesi dall’inizio dell’evento romano che più di ogni altro ne incarna la dimensione universale: il Giubileo.
E tuttavia, parafrasando una citazione di Gustav Mahler particolarmente cara a Bergoglio, potremmo dire che qui si tratta di custodire il fuoco dell’essere cives romani, e non di venerare le vestigia di un glorioso passato. Ecco allora che, parlando dell’Anno santo dinnanzi al sindaco Roberto Gualtieri e agli altri amministratori di Roma, Francesco ha puntato lo sguardo sulla città di oggi, augurandosi che questo grande avvenimento religioso e sociale possa renderla migliore, soprattutto «favorendo l’avvicinamento tra centro e periferie». Roma come un poliedro in cui ogni facciata ne esprime un carattere, ma nessuna ha meno importanza dell’altra.
Tante volte in questi anni di Pontificato, Francesco ci ha incoraggiato a guardare la realtà dalle periferie piuttosto che dal centro. E ora lo ha ripetuto anche nella sede dove vengono assunte le decisioni sul governo della città. Il Papa non ha sottratto se stesso all’impegno che, ha riconosciuto, è compito tanto del vescovo come del sindaco e di tutti coloro che hanno una responsabilità verso il bene comune: l’impegno a non voltare le spalle, ma piuttosto ad essere presenti, ad essere vicini. Prossimi innanzitutto a chi soffre, a chi si sente rifiutato, a chi vive ai margini e non riesce a cogliere la bellezza mozzafiato di una città unica perché la quotidianità è troppo faticosa per permettere di alzare lo sguardo. «Per questo — ha detto Francesco, in uno dei passaggi più applauditi del suo discorso — ho deciso di aprire una Porta Santa in un carcere».
Roma dunque che diventa più Roma se si mette, in tutti i suoi gangli vitali e dimensioni esistenziali, al servizio dei più deboli. Quello che in fondo, guidati dal cardinale vicario Poletti, chiedevano già 50 anni fa i promotori del convegno su «La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella città di Roma», passato alla storia come il convengo “sui mali di Roma”. I mali di oggi sono forse in parte diversi, ma ora come mezzo secolo fa la risposta ad essi è la stessa: mettere al centro gli esclusi, gli ultimi, nella convinzione che non c’è monumento di questa città straordinaria che valga la dignità di un solo uomo.
Questo protendersi verso l’altro, questo prendersene cura senza sentire alcuno come estraneo è nel Dna di Roma. Papa Francesco lo ha voluto ricordare con il messaggio scritto — all’inizio della visita — sul Libro d’Onore del Comune di Roma. Qui ha ripreso in latino la conclusione del ii libro dell’Eneide: il racconto struggente di Enea che si carica sulle spalle l’anziano padre Anchise in fuga da Troia in fiamme. Lì sorge idealmente Roma, lì nasce il suo mito: dal gesto di amore di un figlio verso suo padre. «Con questa decisione — ha scritto il Papa — è nata Roma, nata da lontano, nata in cammino». E ora Roma — la incoraggia il suo Vescovo — è chiamata a ritrovare se stessa, a rimettersi in cammino, questa volta verso il Giubileo, per dare nuova forza alla sua vocazione universale.
di Alessandro Gisotti