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«Un giorno nella vita di Abed Salama» di Nathan Thrall, vincitore del premio Pulitzer

Fatti che giudicano

 Fatti che giudicano   QUO-126
05 giugno 2024

Non è un romanzo e neanche un reportage. Ma è un romanzo e anche un reportage. È il libro del giornalista e scrittore, ebreo di origine americana, e che vive a Gerusalemme, Nathan Thrall che quest’anno ha vinto il premio Pulitzer. Un giorno nella vita di Abed Salama (Milano, Neri Pozza, 2024, pagine 272, euro 19, traduzione di Christian Pastore) è il racconto di una vera tragedia accaduta a Gerusalemme.

Abed, palestinese sposato con Haifa, vive ad Anata, un villaggio appena fuori di Gerusalemme lungo la strada che conduce a Gerico, ma separato dalla città santa dal muro che separa i palestinesi dagli israeliani. Nella prima pagina stessa del libro è riassunto di quale tragedia si stia parlando: Abed ha un figlio piccolo di 5 anni che frequenta la scuola a Gerusalemme est e che per la prima volta nella vita partecipa ad una gita scolastica. Il pullman che porta i bambini finisce però in una scarpata e si incendia e molti bambini perdono la vita. Il bilancio della tragedia sarebbe potuto essere meno grave se, mura di separazione, affollati check point militari, cavilli burocratici, farraginose procedure burocratiche, avessero consentito ai soccorsi di arrivare in tempo. Pompieri, ambulanze, e centri di pronto intervento, distano poco più di due minuti dal punto dell’incidente, ma per circa mezz’ora gli unici soccorsi sono quelli degli automobilisti palestinesi che hanno visto svolgersi la tragedia sotto i loro occhi. Subito dopo quella drammatica prima pagina il racconto si sviluppa a ritroso ripercorrendo la vita di Abed fino a quel giorno.

Una vita — come quella di altri cinque milioni di palestinesi — che il libro presenta segnata in ogni suo aspetto dalla asfissiante presenza dell’occupazione militare israeliana. Che si tratti di andare a scuola o al lavoro, di fare una visita medica o incontrare dei familiari, tutto è condizionato dal regime di mobilità accordato al tipo di carta d’identità che si ha in tasca. Anche le vicende personali e più intime dei protagonisti della storia sono riguardate da quel regime di vita che Nathan Thrall non ha esitazioni a definire di apartheid. La scenografia della tragedia è quella dei villaggi palestinesi posti alla periferia di Gerusalemme, tra Shafuat, Dahiyat a Salaam e Anata. Villaggi posti come macchie di leopardo, ignari alla segnaletica stradale, prospicenti analoghi centri abitati dai coloni illegali israeliani, e circondati da discariche abusive.

Un’area sprovvista di basilari servizi di vita comune, tanto per le inefficienze burocratiche dell’Autorità Nazionale Palestinese, quanto per il disegno abbastanza esplicito delle autorità israeliane di spingere la popolazione araba fuori da quella che loro considerano l’area metropolitana di Gerusalemme, nella parte più interna dei territori palestinesi. Il valore del lavoro di Nathan Thrall, al di là dello spunto iniziale, è proprio in questa ricostruzione dettagliata della quotidianità vissuta nei territori occupati: si capisce del conflitto israelo-palestinese più da questo libro che da decine di saggi socio-politici che sono stati scritti in 80 anni sull’argomento. Anche perché il racconto della vita di Abed e degli altri protagonisti del libro si snoda a partire dalla Nakba del 1948, (l’esodo forzato dei 700mila palestinesi che seguì la prima guerra arabo-israeliana, indicata dagli israeliani come la ‘Guerra d’Indipendenza’), passando poi per l’occupazione della Cisgiordania nel 1967, la guerra di ‘Yom Kippur’ nel 73, i negoziati di pace, la nascita dell’Autorità Palestinese, e poi la prima e la seconda Intifada. Ciò che colpisce della meticolosa narrazione di Thrall è il suo essere scevra, in ogni singolo racconto, di ogni possibile valutazione, commento, o giudizio. Anche dinanzi all’orrore. Solo puri fatti. Che sono però essi stessi un giudizio da cui è impossibile sottrarsi. Non da ultima l’evidenziazione del divario antropologico e culturale tra i due popoli che si esprime in deprecabili forme di razzismo. Una scelta sicuramente calcolata, quella di astenersi dal giudizio esplicito, per uno scrittore ebreo che voglia sottrarsi alle accuse di “tradimento” da parte del sionismo religioso radicale. E in effetti nessuna critica ha potuto smentire la veridicità di ogni singolo passaggio del libro. Che comunque oltre al Premio Pulitzer 2024, è stato valutato come miglior libro dell’anno per «The New Yorker», «The Economist», «Time», «The Financial Times» e «The New York Time Book Review».

L’ipotesi, pessimistica ma realistica, che muove questo, e i precedenti lavori di Thrall, è che la pace potrà darsi solo perché imposta dall’esterno (dagli Usa e dall’ UE innanzitutto) perché le due leadership si fondano e stabiliscono su un orizzonte di guerra e non hanno nessuno interesse a rinunciarvi; da cui il suo precedente lavoro intitolato The only language they understand : forcing compromise in Israel and Palestine. Thrall d’altronde ha lavorato in precedenza come analista — e direttore del programma israelo-palestinese — dell’ International Crisis Group, l’organizzazione non governativa per la prevenzione dalle guerre fondata da Robert Malley, il leader dei negoziatori dell’accordo del 2015 con gli iraniani sul nucleare.Nello sciocco clima di polarizzazione che spira alle nostre latitudini, e che infesta anche molte delle cronache e dei commenti giornalistici sul conflitto israelo-palestinese, Un giorno nella vita di Abed Salaman consente al lettore di buona volontà di entrare nel mondo di chi la guerra la soffre davvero, offrendo chiavi di lettura forse scomode ma senza dubbio vere.

di Roberto Cetera