· Città del Vaticano ·

Visitando il Padiglione della Santa Sede alla Biennale 2024 di Venezia

«Con i miei occhi»
alla Giudecca

 «Con i miei occhi»  alla Giudecca  QUO-124
03 giugno 2024

Non si capita per caso alla Giudecca. Per approdare sulla riva dove sorge la Casa di reclusione femminile di Venezia occorre lasciarsi alle spalle le più frequentate rotte turistiche della città. Ci si ritrova così a percorrere calli solitarie che preparano il visitatore a incontrare altre solitudini. Il Padiglione vaticano della Biennale 2024 curato da Chiara Parisi e Bruno Racine è infatti all’interno del carcere femminile. Con i miei occhi recita il titolo che, al di là dei rimandi shakespeariani e biblici, suggerisce semplicemente la verità dell’esperienza che il visitatore è chiamato a compiere: nessuna foto ricordo della visita, all’ingresso si consegnano documenti, telefoni, borse. Ci si porta dietro soltanto i propri occhi, che serviranno a imprimere le immagini nel ricordo ma anche a incrociare altri sguardi, quello delle artiste e degli artisti che espongono le proprie opere, quello delle detenute che la «cultura della scarto» fa volentieri a meno di mostrare.

Entrando nel carcere della Giudecca ci si spoglia — neanche tanto metaforicamente — delle proprie sicurezze e dei propri effetti personali, lasciandoli in custodia alle agenti della polizia penitenziaria che per l’occasione accolgono i visitatori, componendo il gruppo e conducendolo all’interno. Ma non siamo in un museo, impossibile dimenticarlo. Stiamo invece penetrando in uno spazio separato, stiamo violando una divisione tra il dentro e il fuori, stiamo attraversando la barriera tra noi, i visitatori, e loro, le detenute, che in questo percorso sono guide d’eccezione.

La scelta insolita del cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, spinge a compiere una delle opere di misericordia evangeliche — visitare i carcerati — e allo stesso tempo un atto di impegno civile, al di là dell’effettiva consapevolezza del visitatore.

Siamo dentro. Paola e Manuela ci accolgono nei loro vestiti bianchi e neri realizzati nel laboratorio di cucito del carcere e con semplicità ci introducono negli ambienti allestiti per le opere. Sono emozionate e ci parlano delle foto dei loro figli o di loro stesse bambine, offerte all’artista Claire Tabouret affinché le trasformasse in dipinti. Le immagini compongono una parete d’innocenza che ci riporta all’antefatto comune a tutte le nostre cadute. Lo splendore dell’infanzia illumina la casa di reclusione.

Entriamo nella Cappella della Maddalena e lo sguardo non può che andare verso l’alto, fino al soffitto da cui pendono le colorate realizzazioni dell’artista brasiliana Sonia Gomes, come liane di tessuto che conferiscono una vitalità inaspettata alla chiesa. È qui che Papa Francesco, nella sua visita del 28 aprile, ha parlato dell’arte come «città rifugio», «un’entità che disobbedisce al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere, abbracciare tutti».

La recente visita ha lasciato un segno in tutte le detenute. Un segno anche materiale: Paola e Manuela ci mostrano nel cortile il segno giallo che indica il luogo di atterraggio dell’elicottero che ha portato qui il Papa. Non lo vogliono cancellare: le loro parole di gratitudine, pronunciate mentre intravediamo altre detenute impegnate nei lavori quotidiani, ci dicono del sentimento di vicinanza che quella visita e l’intera iniziativa del Padiglione hanno generato in questo luogo. Siamo con voi nella notte: nello stesso cortile, questa scritta luminosa blu realizzata dal collettivo Claire Fontaine accompagna la solitudine delle ore più dure. «Quando la guardiamo, sentiamo che qualcuno là fuori ci pensa».

Nella caffetteria del carcere troviamo le opere di Corita Kent, religiosa e artista statunitense scomparsa nel 1986, tra le figure chiave della pop art. Le sue serigrafie gridano parole di pace, di amore e di rispetto che ci arrivano come un messaggio nella bottiglia dal passato, risuonando potentemente con le crudeltà di cui ci giunge notizia quotidianamente. Messaggi di cui «dentro» si sente il bisogno, «ma non è che fuori le cose vanno meglio». Il dentro e il fuori, che mentre siamo accanto a Paola e Manuela pare momentaneamente archiviato dalla prossimità dei corpi, torna nei loro discorsi come anche nel cortometraggio di Marco Perego e Zoe Saldana, Dovecote (Colombaia), in cui una detenuta viene rilasciata e passa dal bianco e nero del carcere al colore della città, che la attende nel silenzio mattutino dei canali. Le detenute che compaiono nel cortometraggio mostrano la loro stessa vita all’osservatore, al di là di ogni giudizio, e dischiudono la realtà delle celle, dei bagni e dei corridoi allo sguardo dello spettatore. Ma non c’è voyeurismo, così come in tutta la visita non c’è alcun turismo del dolore: in un precario momento di reciprocità, ciò che è abitualmente separato si è incontrato, vite diverse si sono guardate negli occhi.

Paola e Manuela ci ringraziano per essere venuti in visita, a nostra volta ringraziamo con un applauso e veniamo ricondotti dalle agenti agli armadietti dove abbiamo lasciato la nostra rintracciabilità. Solo all’uscita, ancora un po’ stordito, mi accorgo dei piedi monumentali e dolenti dipinti da Maurizio Cattelan sulla facciata esterna della cappella, che sono diventati il simbolo del Padiglione. Non li avevo notati entrando, mentre camminavo radente il muro della Casa circondariale, e ora sigillano la mia visita come un amen muto e materiale.

Mentre riordino i pensieri sulla strada del ritorno, riaffiorano le parole di Massimo Cacciari in una recente intervista pubblicata da «Avvenire»: «il pensiero è pensiero quando è segno di contraddizione e la Chiesa è Chiesa quando è segno di contraddizione». In quel luogo di massima contraddizione esistenziale e sociale che è il carcere, queste parole si incarnano e rivelano un senso che va ben al di là dei dibattiti sull’attuale ruolo della cultura cattolica. Per essere compiutamente cattolica, come suggeriva Simone Weil, la Chiesa deve avere come orizzonte l’umanità intera, al di là delle appartenenze, nel suo splendore e nella sua miseria, nelle inquietudini che la agitano e che non cessano di sollecitare la cultura contemporanea. Intercettando questa linea, il Padiglione vaticano della Biennale 2024 non usa l’arte in un senso ideologico o decorativo, ma allestisce un’intensa esperienza di incontro umano sospendendo e portando in superficie per un momento le contraddizioni che si agitano in noi, semplicemente guardandole. Con i miei occhi.

di Stefano Oliva