· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
La recente uccisione di 14 giovani cristiani spinge a una riflessione globale sulla Repubblica Democtatica del Congo

Nord Kivu:
un inferno di dolore

FARDC (Armed Forces of the DRC) soldiers drive through Kanyabayonga, North Kivu province, eastern ...
31 maggio 2024

L’uccisione di quattordici giovani cristiani, avvenuta un paio di settimane fa, nella provincia congolese del Nord Kivu, è raccapricciante e il loro sacrificio eroico è motivo di edificazione. Questo giornale ne ha dato notizia all’inizio della settimana facendo esplicito riferimento a un video, diffuso nei giorni scorsi dagli stessi carnefici, dal quale si evince che il motivo dell’esecuzione è stato il loro rifiuto di convertirsi all’islam.

Gli autori di questa carneficina, commentata in lingua kiswahili da un’algida voce, sono stati i ribelli delle Allied Democratic Forces (Adf), noti anche come Forces démocratiques alliées. Fonti della società civile locale hanno riferito che non si è trattato di un episodio isolato in quanto da quelle parti, lungo il confine tra il Nord Kivu e la provincia dell’Ituri, ogni settimana si verificano uno o due raid, vere e proprie mattanze perpetrate all’arma bianca o a colpi di kalashnikov, nei villaggi o nei campi, a volte anche sulle strade in terra battuta. I ribelli uccidono, incendiano e sequestrano impunemente ragazzi e ragazze cristiani o animisti, che successivamente vengono sottoposti a sedute d’indottrinamento invasive: una sorta di lavaggio del cervello che trasforma queste reclute in automi in grado di compiere indicibili nefandezze, grazie anche alla somministrazione di sostanze stupefacenti. Motivo per cui pare certo che il commentatore delle immagini del truce resoconto perpetrato nei pressi del centro di Eringeti, una quarantina di chilometri dalla città di Beni, sia stato un giovane congolese. Preso prima in ostaggio dagli islamisti e costretto poi a convertirsi per evitare la pena capitale, come tanti suoi coetanei, si è trasformato da vittima a carnefice.

Sarebbe comunque fuorviante pensare che questa spirale di violenza prescinda dal contesto geopolitico di quella tormentata parte dell’ex Zaire, appunto la provincia del Nord Kivu. Stiamo parlando di una terra che da lunghi anni continua a essere bagnata da sangue innocente, per questo raccontata spesso anche da questo giornale e inspiegabilmente e colpevolmente ignorata da gran parte della stampa internazionale. Le ragioni che rendono infuocato questo territorio sono fondamentalmente due: la presenza di numerosi formazioni armate che seminano impunemente morte e distruzione e la ormai endemica epidemia di ebola che ciclicamente si ripresenta causando pene indicibili ai malati. Si stima che nella regione siano attivi oltre un centinaio di gruppi armati — in alcuni casi masnade dedite al banditismo, in altri, formazioni ribelli — per un totale di oltre 20.000 combattenti.

Ma andiamo per ordine. Le Adf sono un gruppo ribelle islamico di matrice ugandese considerato un’organizzazione terroristica dal governo di Kampala. Originariamente questo gruppo eversivo era insediato nell’Uganda occidentale, ma si è poi dispiegato stabilmente nella vicina Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Originariamente, la maggior parte dei combattenti delle Adf erano musulmani dei gruppi etnici Baganda e Basoga; successivamente però, ispirandosi alle pratiche dei ribelli nord ugandesi del Lord’s Resistance Army (Lra), hanno dato vita a una campagna a tappeto di sequestri di minori congolesi del Nord Kivu e dell’Ituri costringendoli ad aderire alla fede islamica.

Le Adf considerano come loro fondatore un certo Jamil Mukulu. Nato in una famiglia cristiana nel 1964, si convertì successivamente all’islam. Dal 2015, le Adf hanno fortemente radicalizzato la propria agenda politica, dopo l’incarcerazione di Jamil Mukulu e l’ascesa al suo posto di un altro ugandese, Musa Baluku. Dal 2019, le Adf si sono divise, con una parte minoritaria rimasta fedele a Mukulu, mentre l’altra, che ha preso il sopravvento, si sarebbe fusa sotto Baluku, nella Provincia dell’Africa centrale dello Stato islamico, meglio noto con l’acronimo Iscap. La loro ferocia, mediatizzata attraverso una strategia comunicativa delirante, è incentrata sulla provocazione, uno dei tratti caratteristici dell’ideologia salafita, quella su cui si reggono le cellule eversive d’estrazione islamista. Il loro intento è quello di strumentalizzare la religione per fini eversivi, attribuendo all’Occidente la responsabilità del degrado mondiale e annientando chiunque si opponga al loro delirio di onnipotenza.

Mentre scriviamo, la popolazione locale è costretta a fuggire per il costante incalzare di questi fanatici i quali hanno intensificato negli ultimi mesi le azioni, soprattutto nella circoscrizione di Beni, finanziandosi grazie al trasporto illegale transfrontaliero di cacao, legname pregiato e oro, oltre che attraverso aiuti economici provenienti dall’estero (soprattutto da mercanti e uomini d’affari salafiti). Occorre poi osservare che lo spopolamento di queste aree sarebbe funzionale anche allo sfruttamento del petrolio da parte di potentati stranieri più o meno occulti, unitamente alla creazione di altri campi di addestramento e indottrinamento, finalizzati a un potenziamento della presenza jihadista nel cuore dell’Africa. È dunque evidente l’utilizzo dell’ideologia islamista per fini anche lucrativi, una strategia che trova il suo infelice riscontro nella fascia saheliana, in Somalia e nel Nord del Mozambico. Purtroppo, al momento, le Adf hanno ancora campo libero in quanto le truppe regolari congolesi (Fardc) sono costrette a un confronto asimmetrico che rende la loro presenza vulnerabile rispetto all’imprevedibilità degli insorti. La situazione è diversa più a meridione, ma sempre nel Nord Kivu. Qui la settimana scorsa, le Fardc hanno lanciato un’offensiva contro le posizioni dei ribelli filo ruandesi del movimento M23.

Sostenuto dalla “wazalendo” o milizia patriottica, l’esercito congolese «ha lanciato l’offensiva il 22 maggio», ha dichiarato sul social media x il portavoce delle Fardc, il tenente colonnello Guillaume Ndjike. Fonti della società civile presenti nella città di Goma, hanno riferito che sono in corso combattimenti nel territorio di Masisi e Rutshuru, a nordovest della città congolese, capoluogo del Nord Kivu.

Ma al di là di queste considerazioni è importante comprendere che il Nord Kivu rappresenta la cartina al tornasole di quanto sta avvenendo nella Repubblica Democratica del Congo. Sia chiaro: non stiamo parlando affatto di un Paese povero, semmai di una terra impoverita. È il paradosso di una delle nazioni più ricche al mondo di materie prime, ma con insediata una delle popolazioni più povere del pianeta. Proprio la popolazione del Nord Kivu potrebbe essere più benestante di quella del Canton Ticino se potesse gestire le immense risorse minerarie del proprio sottosuolo: oro, cobalto, petrolio, manganite, cassiterite e coltan. Quest’ultimo, nell’elenco delle commodity, è al top: si tratta di una lega naturale di columbio e tantalio e viene utilizzato per i più svariati scopi industriali che vanno dall’assemblaggio dei satelliti spaziali con l’utilizzo del columbio, alla realizzazione della componentistica di cellulari, tablet, computer e altri gadget elettronici. Il controllo delle terre e il sistematico sfruttamento delle risorse naturali, oltre ai continui approvvigionamenti di armi e munizioni, consente a miliziani, trafficanti e mercenari di perseguire una massiccia e devastante appropriazione e (s)vendita di un bene comune mai condiviso.

È proprio per questa ragione che da sempre il gesuita padre Rigobert Minani ha denunciato l’inganno. Si tratta di uno degli esponenti più autorevoli della società civile congolese che da anni va ripetendo che «quando si dice che il Congo è uno “scandalo geologico” si intende che il Paese è potenzialmente ricco». E da sempre queste ricchezze hanno condizionato la storia nazionale: sono state al centro delle guerre che dal 1996 al 2003 hanno insanguinato l’ex Zaire, provocando quattro, se non addirittura cinque milioni di morti. E proprio poiché a est, lungo la linea di confine con l’Uganda e il Rwanda, la guerra di fatto non è mai terminata, sarebbe auspicabile un rinnovato impegno da parte della comunità internazionale. Anche perché con il ritiro dal Paese della forza di peacekeeping delle Nazioni Unite (Monusco) — per lunghi anni presente in territorio congolese e accusata ripetutamente di essere «inerte» — il disinteresse nei confronti di questo Paese è lievitato. E questo nonostante il coraggioso e duro monito lanciato da Papa Francesco lo scorso anno in occasione della sua visita a Kinshasa.

E cosa dire dell’Europa tanto preoccupata dalla mobilità umana che proviene dalla sponda africana? Sarebbe ora che uscisse dal letargo sostenendo tutte le possibili iniziative a livello negoziale per amore del popolo congolese e per onorare la memoria di quei giovani cristiani immolati sull’altare dell’egoismo umano.

di Giulio Albanese