Ogni primo sabato del mese, la compagnia dell’«Osservatore di Strada» si raduna nella Basilica Vaticana per pregare per i produttori e i commercianti di armi. Una delle intenzioni di preghiera della “Messa dei Poveri e con i Poveri”, che il nostro giornale promuove insieme con la parrocchia di San Pietro, è dedicata proprio a loro, «perché il Signore converta i loro cuori, rendendoli consapevoli che le immense risorse economiche investite negli armamenti sono soldi rubati ai poveri».
La preghiera è il nostro modo di ribellarci alla rassegnazione che si sta diffondendo, come se la guerra fosse un destino inevitabile, col quale, prima o poi, tutti dovremo fare i conti. Nel vocabolario di chi governa le nazioni ormai predominano parole come “guerra”, “riarmo”, “deterrenza”. E sempre meno si parla di “dialogo”, di “negoziati” e tantomeno di “pace”. Cresce la paura e, nello stesso tempo, prevale, nelle piccole come nelle grandi controversie, la via dello scontro, del non ascolto e della sopraffazione dell’altro. Invece, le voci di chi non si piega a questa logica — soprattutto i giovani — vengono minimizzate, se non represse, e in ogni caso ridotte a manifestazioni di un utopico pacifismo fuori moda.
I “grandi” del mondo non sembrano prestare attenzione neanche alla voce di Papa Francesco, che in modo quasi martellante ripete il suo appello e la sua preghiera per la pace. La sua proposta di destinare i soldi delle spese militari a un fondo mondiale per debellare la fame nel mondo, contenuta nella Bolla di indizione del Giubileo, ha suscitato interesse... ma per un solo giorno. Vedremo cosa accadrà nel 2025.
Eppure sono tante le voci che fanno eco a quella del Papa. Non solo quella della Chiesa, come ha dimostrato il grande incontro dell’“Arena della Pace” svoltosi a maggio a Verona (nelle pagine centrali del giornale riportiamo alcuni stralci dell’intervento di Papa Francesco).
A questo coro di voci che non si rassegnano, noi dell’«Osservatore di Strada» vogliamo aggiungere anche quella dei poveri. Sono loro, i più fragili e i più indifesi, le prime e principali vittime di ogni conflitto. Perché sono loro ad essere mandati al macello o ad essere costretti ad abbandonare tutto nella ricerca — spesso delusa — di trovare riparo altrove. Ed è a loro che sono sottratte le enormi risorse investite nell’acquisto di armi e che potrebbero essere invece utilizzate per promuovere e garantire il diritto alla casa, al lavoro, ad una assistenza sanitaria gratuita, universale ed efficiente, all’istruzione e all’accoglienza.
Per questo motivo abbiamo deciso di dedicare questo numero, che segna anche il secondo anno di vita del nostro giornale, alla pace dei poveri. Non lo facciamo per facile buonismo. Chi vive il disagio e l’esclusione non è pacificato. Anzi è arrabbiato. Ma conosce, perché lo vive sulla propria pelle, cosa vuol dire la guerra, che non è solo quella combattuta sui campi di battaglia. Sa cosa vuol dire perdere tutto, essere visto con sospetto e diffidenza, essere considerato un nemico. E, allo stesso tempo, conosce il valore della solidarietà e dell’amicizia disinteressata.
Conosce il male e il bene dell’uomo. Per questo sa che la vera pace può cominciare solo da un cuore disarmato.
E nessuno ha un cuore tanto arido come colui che nega l’inutilità della guerra.
di Piero Di Domenicantonio