È una donna coraggiosa suor Beatrice. Trova la forza di raccontare lucidamente il dolore che sta devastando il suo amato Myanmar, mentre a pochi chilometri di distanza sente risuonare il fragore sordo delle bombe. E degli infiniti spari di mortaio che cancellano villaggi e vite. Quando «L’Osservatore di Strada», dopo diversi giorni e centinaia di tentativi andati a vuoto, riesce a contattarla, sembra un miracolo. La sua voce arriva incerta, quasi strappata, perché collegarsi con quell’inferno è quasi impossibile: oltre alla mattanza programmata di civili, i militari si preoccupano di rendere gli apparati di comunicazione inservibili, soprattutto prima di compiere un’incursione di terra o un bombardamento aereo. Eppure la sua voce, alla fine, arriva. E quello che sorprende non si trova tanto nella tragica narrazione delle violenze che stanno mettendo a ferro e fuoco il Paese dell’Asia sudorientale, ma nel tono del suo parlare che suona rassicurante e pieno di speranza. Anche quando rivela che negli ultimi mesi «migliaia di giovani che non hanno completato gli studi sono stati presi e spediti nei campi d’addestramento per poi essere catapultati nelle zone di guerra». Carne da macello. Anche quando ricorda «le fiamme che hanno incenerito decine di case, di chiese e di scuole. E in molti casi perfino i viveri necessari per la sopravvivenza».
Suor Beatrice non nasconde la disperazione — ci fa i conti ogni giorno —, ma nel fondo del suo cuore sa che tutto questo non rappresenta la fine, non vuol dire che il male avrà l’ultima parola. E non è la sola a crederlo. Insieme a lei, c’è anche tutta la popolazione birmana che non si arrende all’evidenza della morte, all’ineluttabilità del conflitto. «Di gente ne incontro tanta e posso assicurare che più aumenta la violenza, più cade ma più si rialza», sussurra la religiosa che aggiunge un particolare di non poco conto: «Oggi le persone si aiutano a vicenda senza tenere in considerazione l’appartenenza religiosa. Ognuno condivide con l’altro tutto ciò che ha. Riaccendendo la speranza ci sentiamo più fratelli».
C’è una storia emblematica che suor Beatrice vuol far conoscere al mondo intero. È quella che riguarda una famiglia povera con sette figli, il cui papà, alcuni mesi fa, era dovuto fuggire dai militari che lo volevano morto per l’unico torto di non essersi schierato con la guerra: «Pochi giorni fa hanno incendiato il villaggio dove vivono e sono dovuti scappare via. La mamma, per evitare che i suoi figli potessero morire tutti insieme, ha preferito separarsi da alcuni dei suoi bambini affidandoli ad una signora che, dopo diverse peripezie, li ha fatti arrivare al nostro convento sani e salvi. È una storia che trasuda il coraggio, la tenacia e la speranza di una madre che non si è fatta sopraffare dagli eventi».
In fondo, non è un caso isolato. Anche la Chiesa locale non si lascia atterrire dalle bombe e dai morti. Più le violenze aumentano, più sacerdoti, vescovi, suore, laici impegnati si stringono intorno alla popolazione sofferente.
Lo chiarisce con forza suor Beatrice: «La Chiesa tiene il filo della fraternità. In questi mesi, mi sembra di sperimentare la Chiesa primitiva dove i ricchi distribuivano i loro beni e li condividevano tra loro senza lasciare nessuno nel bisogno». Cibo, vestiti, educazione, sanità: la Chiesa si fa in quattro per spargere unguento sulle ferite del popolo. «La gente non può aspettare che la situazione torni alla normalità», ripete più volte la religiosa. Bisogna agire, subito.
Lei e le sue consorelle ne sanno qualcosa di vicinanza e di amore. Soprattutto perché da quando è iniziato questo drammatico conflitto si occupano di assistere gli sfollati e di insegnare ai bambini ed ai ragazzi che non hanno più nemmeno una scuola, tirata giù dalla furia delle bombe.
«Nel Paese, però, ci sono anche tante associazioni, gruppi, uomini e donne di buona volontà che stanno lavorando duramente per la pace anche se appare un obiettivo difficile», confida la suora. Che, alla fine, lancia un appello alla comunità internazionale: «Deve iniziare a sostenere i nostri sforzi di pacificazione,
deve iniziare a sostenere la nostra speranza».
di Federico Piana