Lo scorso 21 febbraio il Senato italiano ha approvato il decreto legge n. 855 con cui si propone di modificare la legge 185/90 che regola le esportazioni di armi. Obiettivo: snellire l’eccessiva burocrazia per l’import e l’export degli armamenti e facilitare i processi legati alla sicurezza nazionale in un periodo tanto conflittuale.
Il progetto ha però scatenato molte critiche, ben rappresentate dalle iniziative della Rete Italiana Pace e Disarmo e dall’articolo pubblicato sulla rivista “Mosaico di pace” intitolato “La 185 non si tocca”, secondo cui le modifiche proposte compromettono la trasparenza di certi processi e agevolano l’industria delle armi.
Qualche esempio. Nella versione originale della 185/90, l’articolo 5 richiedeva «indicazioni analitiche — per tipi, quantità e valori monetari — degli oggetti concernenti le operazioni contrattualmente definite». Nel decreto legge si propone di cancellare questa parte e sostituirla — in modo vago secondo la critica — con l’obbligo di indicare, nella relazione annuale, «i Paesi di destinazione con il loro ammontare suddiviso per tipologia di equipaggiamenti e, con analoga suddivisone, le imprese autorizzate». Altrettanto dibattuta è la proposta di abrogare l’articolo 27 comma 4, ossia l’obbligo di riportare nella relazione annuale i dati delle transazioni bancarie connesse a esportazioni o importazioni di armamenti dell’anno precedente.
Più che sul contenuto, le riflessioni da avviare dovrebbero essere sostanziali: siamo sicuri che, proprio nel periodo storico in cui l’industria bellica torna protagonista con ricavi da capogiro, la politica non stia facendo un passo indietro, finendo per esigere meno controlli e lasciare maggiore iniziativa ai privati? In quale direzione andrà questo disegno di legge? Non si dovrebbe, anche attraverso studi e approfondimento, rendere tutto più trasparente e tutti più consapevoli? Non ci si dovrebbe impegnare per impedire quantomeno il rischio che le armi finiscano nelle mani sbagliate? A cosa ambisce il ritorno dell’interventismo commerciale e industriale promosso dagli Stati?
In effetti, i timori non sono del tutto ingiustificati. Le iniziative belliche sono ormai all’ordine del giorno ovunque. Ad aprile, inaugurando una fabbrica per munizioni a Bergerac, il presidente francese Emmanuel Macron ha lodato l’economia di guerra perché «genera ricchezza». Annunciando che il Regno Unito incrementerà la spesa per la difesa al 2,5 per cento del pil entro il 2030, il primo ministro britannico Rishi Sunak ha precisato che l’industria della difesa dev’essere «sul piede di guerra».
Nel frattempo, il presidente della Polonia Andrzej Duda ha dato disponibilità a ospitare armi nucleari sul proprio territorio e il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, invocando un aumento del budget a disposizione del suo dicastero, ha ricordato come «le più belle biblioteche digitali e le piste ciclabili non serviranno a nulla se saremo attaccati e non saremo in grado di difenderci».
Risultato: come riferito dallo Stockholm International Peace Research Institute ( sipri ), gli Stati europei hanno quasi raddoppiato le loro importazioni di armi (+94 per cento) tra il 2014 e il 2023.
Poi, proprio nel giorno in cui la Nato chiedeva di elevare le spese per la difesa, ecco giungere una proposta del tutto inaspettata: destinare i soldi per armi e spese militari a un fondo mondiale per la lotta alla fame. No, a farsi portatore di queste parole non è una voce fuori dalla realtà né tantomeno uno dei politici sopra menzionati. È Papa Francesco che, nella Bolla di indizione del Giubileo 2025, attraverso una provocazione ahinoi irrealizzabile vuole ricordarci un dato di fatto: non siamo fatti per la guerra. Anzi, siamo obbligati a lavorare per la pace.
Perché se è vero che, come notava il generale Carl von Clausewitz nella sua opera più importante dal titolo «Della Guerra», la guerra è la continuazione della politica sotto altri mezzi, allora è altrettanto vero che la guerra è subordinata alla politica. E proprio quest’ultima deve risorgere per proporre una fine alle tante, troppe guerre che un fine non ce l’hanno.
Non sarà facile perché, dopo decenni in cui la politica è stata al centro della vita pubblica e in essa si cercava una risposta alle tante crisi, oggi quando si parla di politica si storce il naso. Difficile immaginare il contrario, visto il livello medio, l’assenza di leadership e il costante ricorso a tecnicismi come «governance» o «public policy» privi di alcun significato. Alla fine a mancare è proprio lei, quella che Papa Francesco nella Fratelli Tutti definisce «la migliore politica», basata su una «ampia visione» e portata avanti dagli «esperti di umanità» di cui avvertiva l’esigenza Papa Paolo vi .
Le conseguenze di questo vuoto sono sotto gli occhi di tutti. La crisi della politica significa crisi della diplomazia, del dialogo, della mediazione, della strategia e quindi della tattica. Ereditato dal primo dopoguerra, rafforzato ciecamente negli anni Novanta dello scorso secolo, l’unico obiettivo concepito nei confronti di chi è diverso o in conflitto con noi è la punizione. Se chi parla di negoziato e chi abbozza la necessità di scendere a compromessi (la storia insegna che non esiste una pace giusta per tutti) è accusato di complicità, allora non siamo più capaci di definire la fine della guerra.
Ed è un problema perché significa che le guerre saranno non solo infinite, ma soprattutto prive di ogni rapporto col diritto. Le misure belliche intraprese dai singoli Stati — in guerra e non —, accompagnate da slogan tanto decisi, sembrano esserne evidente rappresentazione e drammatica anticipazione: abbiamo rinunciato alla pace.
È troppo tardi per invertire la rotta? Lo dirà la storia. Nel frattempo, sullo stile di Papa Francesco, il cristianesimo dovrebbe distinguersi ancora una volta per la sua capacità di essere cercatore e sognatore in mezzo alle macerie del mondo. In questo senso, proprio alla Chiesa spetta fare il primo passo.
Senza essere troppo ambiziosi, bisogna proporre di ragionare insieme per evitare il peggio. L’abuso della parola e il mancato rispetto delle idee sono il primo sintomo della deriva mondiale. Per constatarlo, basta entrare in un’università, iscriversi a un social network, accendere la televisione o seguire un dibattito parlamentare. Ascoltare, conoscersi, rispettarsi, dialogare, trovare punti in comune, dettare strategie diverse ma non contrastanti. Riportare le modalità — e non solo i punti — all’ordine del giorno. Prima che sia davvero «troppo tardi».
di Guglielmo Gallone