· Città del Vaticano ·

I volti della povertà in carcere - 11

I volti della povertà in carcere

 I volti della povertà in carcere   ODS-022
01 giugno 2024

Questo viaggio stenta a chiudersi. Siamo partiti da Milano per raggiungere la Comunità don Lorenzo Milani di Sorisole ( bg ), luogo di speranza, accoglienza e di incontri variegati
di culture e religioni. All’arrivo
ci viene incontro don Dario Acquaroli, direttore della comunità e cappellano del carcere di Bergamo, e con lui c’è Charif, marocchino, detenuto nel carcere di San Vittore e da qualche giorno accolto in struttura per scontare la pena alternativa al carcere. «Siamo amici di Arnoldo della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti — gli dico —, che ci ha chiesto di incontrarti per conoscere la tua storia. La tua testimonianza potrebbe aiutare tanti ragazzi che, come te, sono in carcere, ma sperano di poter essere liberi e riscattarsi».

Charif è timido e disorientato, parla poco italiano, ma comprende bene le nostre parole. Il sole ci scalda e ci accompagna in questo incontro a tre volti sulle panchine di legno della Comunità. «Sono arrivato qua dal Marocco, attraverso Spagna, Francia e poi Italia. Prima sono andato a Foggia e ho fatto due mesi di lavoro non pagato… poi sono venuto a Milano e ho fatto spaccio perché qua non ho trovato nulla per lavorare. Non avevo documenti e poi la polizia mi ha arrestato in un centro commerciale. Sono entrato in carcere e condannato a due anni e otto mesi».

Si interrompe di colpo. Don Dario ci aiuta a sciogliere questo legittimo imbarazzo iniziale, non senza la vergogna di dover raccontare a due estranei la propria storia. «In carcere sono stato otto mesi. Nessun richiamo, nessuna terapia di farmaci, non gridare, niente. Ho lavorato in lavanderia, poi cucina con Cretu e gli altri ragazzi».

Gli raccontiamo di aver incontrato Cretu, di aver mangiato la pizza che preparano per il reparto ogni venerdì a pranzo. Charif sorride e liberamente inizia a raccontare qualcosa: «… Io pure preparavo pizza, mi piaceva lavorare in cucina. I ragazzi molto bravi, di tante nazionalità e non tutti parlavano la mia lingua. Sono stato ai gruppi con volontari e ho incontrato Arnoldo che mi ha aiutato. Poi venuto don Dario e mi hanno fatto venire qua. Le guardie mi hanno detto: “sei libero, puoi andare!”. Non ci credevo. Ho salutato tutti e sono uscito. Fuori mi aspettava Arnoldo che mi ha portato qua».

Don Dario interviene e ci racconta che Charif è in Comunità da una settimana e sta seguendo il laboratorio in fattoria, a breve inizierà il corso di alfabetizzazione per imparare meglio l’italiano; col tempo l’équipe della comunità si attiverà per la richiesta di permesso di soggiorno. «Siamo convinti — dice don Dario — che progetti di questo tipo permettano anche a ragazzi come Charif di costruirsi un futuro, perché in carcere è impossibile pensare a questo, soprattutto per coloro che non hanno niente e nessuno fuori e si trovano anche con reati non troppo gravi».

«Charif — gli chiedo —, quando sei partito dal Marocco, cosa pensavi di fare in Italia?». «Pensavo di andare a fare lavoro, fare tutto per la mia famiglia a Marocco».

«Tu sei stato bravo in carcere, ma anche chi si è preso cura di te lo è stato! Sei stato aiutato perché hai dimostrato di essere una brava persona e in cambio ti è stata offerta questa opportunità per mettere a posto le cose». «Sì, è vero. Ho visto compagni di cella che appiccavano fuoco, che gridavano, che litigavano con guardie. Io no, sono stato bravo: lavorare e basta».

«Grazie, Charif per la tua testimonianza e per lo sforzo che hai fatto di parlare con noi nonostante la lingua. Torna pure al lavoro e buona fortuna!».

L’occasione è preziosa per proseguire l’incontro con don Dario, al quale chiedo, partendo dalla sua esperienza di accoglienza, come definirebbe la sofferenza. «Qui ho imparato che, con chi sta vivendo la sofferenza, non ti puoi porre come colui che dà la soluzione, che ti dice: “Adesso devi far così per risolvere le cose”, né tanto meno ti poni come un salvatore. Devi essere capace di imparare ad accogliere la libertà dall’altra persona anche accogliendo il suo più grande rifiuto. Accogliere vuol dire anche dare la possibilità all’altro di trovare un luogo dove poter testimoniare la sua sofferenza che ti permette di curare lasciando che anche l’altro, in qualche modo, si prenda cura di te. Nel Vangelo quando Gesù si prende cura di chi soffre, non si mette mai al posto della persona sofferente, la cura e lascia sempre quello spazio di libertà che permette all’altro di decidere cosa fare. Sono convinto che, da cristiani, dovremmo solo essere grati per ciò che ci è stato dato e per chi si è preso cura di noi. Solo così saremo in grado di prenderci cura degli altri e farlo in modo disinteressato e libero senza pensare a tutti i costi di dover “salvare il mondo”».

«Grazie don Dario, per noi è ora di far ritorno a casa. Il nostro viaggio finisce qui. È stato bello incontrarti con Charif e potervi intervistare. Credo che la vostra testimonianza sia paradigma della vera speranza». (Rossana Ruggiero)

di Rossana Ruggiero