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DONNE CHIESA MONDO

Testimonianze: la medicina narrativa sperimentata da una giornalista

Ti racconto la mia malattia

 Ti racconto  la mia malattia  DCM-006
01 giugno 2024

Rosso 32. Era il mio codice identificativo al San Camillo, il presidio sanitario che a Torino è specializzato in riabilitazione. I reparti dell’ospedale hanno il nome dei colori, Verde, Giallo, Lilla, Azzurro e, appunto, Rosso. Il 32 era il numero del mio letto. Un modo, forse, per colorare la vita dei pazienti affetti da menomazioni e disabilità, molti dei quali con validi motivi per vedere la vita in nero fosco, al massimo grigio. Potrebbe sembrare un modo puerile per affrontare la sofferenza, ma i padri Camilliani sanno quello che fanno.

Lo sanno dal 1586, quando la “compagnia di uomini da bene” riunita da Camillo de Lellis ottenne l’approvazione da Papa Sisto v e, nel 1591, Papa Gregorio xiv sancì la nascita dell’Ordine dei Ministri degli Infermi. Come stabilisce la sua regola, l’Ordine si dedica «prima di qualsiasi cosa alla pratica delle opere di misericordia verso gli infermi» e fa sì che «l’uomo sia messo al centro dell’attenzione del mondo della salute». Erano specializzati nell’assistenza dei malati di peste. Morirono a decine. Le donne non c’erano, per una volta la cura degli infermi non era un carico soltanto loro. Le Figlie di San Camillo nacquero comunque nel 1891.

La fede è un dono, di quel Dio “che atterra e suscita, che affanna e che consola”, come dice Manzoni. È un dono che chiede un contro-dono, una restituzione. Anche sotto forma di testimonianza, credo. E dunque.

Mi chiamo Alessandra Comazzi, sono giornalista, torinese, ho 67 anni e sono neuropatica. Mi occupavo di spettacoli, facevo il critico televisivo per un quotidiano, La Stampa. Adesso mi occupo soprattutto di tornare a camminare e di reimparare a usare le mani. Un bel salto anche emotivo. Perché c’è la fede, certo, ma poi ci sono la carità, e la speranza. Le tre virtù cardinali. E ho imparato che forse, in certi momenti difficili, proprio la speranza è la virtù più impervia.

Era esattamente il 7 gennaio 2023, un sabato. Mi sentivo le gambe molli, in settimana avevo avuto un po’ di tosse. Mi verrà l’influenza, pensavo. Quella sera, mio marito Giorgio e io, non abbiamo figli, avevamo cenato normalmente. E dopo, ricordo, vedemmo un film alla tv, l’ultimo di Spielberg, The Fabelmans. Quando, verso le 23, finiamo di vedere il film, io cerco di alzarmi dal divano e crollo. Non mi reggo in piedi. Giorgio dice: «Non va mica bene, andiamo al Pronto Soccorso». Tempo di salire sull’auto, e già non riuscivo ad allacciarmi la cintura di sicurezza. Tempo di arrivare al Pronto Soccorso dell’ospedale Mauriziano di Torino, e già mi serviva la sedia a rotelle.

Comincia la trafila. Quando una dottoressa mi chiede i documenti, io, che non avevo ancora capito che cosa mi stesse succedendo, mi alzo per prenderli, erano su un tavolinetto vicinissimo, e cado a terra. Passano le ore e le analisi: con il prelievo del liquor arriva la diagnosi. Sindrome di Guillain-Barré, polineuropatia acuta: una rara malattia autoimmune che non avevo mai sentito nominare. Il sistema immunitario, per motivi sconosciuti, combatte un virus qualunque presente nel corpo combattendo il corpo. In questo caso, le guaine che rivestono le fibre nervose. Il cervello non riesce più a trasmettere segnali ai muscoli. Segue paralisi. E insomma, alle 20 mangiavo gli spaghetti, alle 21 guardavo un film e alle 6 del mattino ero tetraplegica. Avete presente il film francese Quasi amici, quello in cui Omar Sy cura il tetraplegico François Cluzet? Ecco, così.

Intanto la paralisi saliva, c’era il pericolo che mi bloccasse anche le vie respiratorie, l’anestesista era pronto a intubarmi, avevo la bocca storta e biascicavo le parole. Dolori fortissimi alla schiena. Ma ero sempre lucida, ancorché inconsapevole della effettiva gravità della situazione. Prontamente trasferita dal Pronto Soccorso al reparto Neurologia, tra tubi e macchine (la vita te la salva, il Sistema Sanitario Nazionale), era subito partita la somministrazione dell’”antidoto”: le immunoglobuline. Se ce la facevo a non morire subito, la malattia sarebbe stata reversibile, ma lunghissima. Dobbiamo intenderci sul concetto di reversibilità. In un primo tempo pensavo che reversibile volesse dire tornare come prima. Ma no. Sto convivendo con un’altra me, anche se, in questo anno abbondante, di cui cinque mesi di ricovero (uno in ospedale, quattro al San Camillo, Rosso 32), sono passata dalla totale immobilità alla sedia a rotelle, al deambulatore, e ora al bastone. Continuo a fare tanta riabilitazione, i progressi ci sono, ma di una lentezza esasperante. A 67 anni, non è che i muscoli guizzino come serpentelli. Son tribolazioni.

Tante cose, ho imparato. Intanto che l’Estrema Unzione adesso si chiama Unzione degli infermi. Il cappellano del Mauriziano me l’aveva offerta quasi timidamente, e io l’avevo accolta con gioia. Nessuna paura di morire. Ma tanta sofferenza. Il mio corpo era un sarcofago immobile che racchiudeva l’anima, il cervello. Incapace di fare tutto. Muovermi, mangiare, lavarmi, andare in bagno. In quella fase, come mi hanno spiegato i medici, l’adrenalina, l’istinto di sopravvivenza, mi davano forza. Mi dava forza anche la fede. Ho capito che cosa voleva dire affidarsi, parola che ha lo stesso etimo di fede: lì dove le persone vengono aiutate a rimettersi letteralmente in piedi con un atteggiamento di grande professionalità, ma anche di disponibilità, di partecipazione. Ho sentito parlare di medicina narrativa. L’ascolto del malato, un diverso approccio alla cura. Cura come “prendersi cura”. Perché se è difficile affrontare la fase acuta della malattia, ancora più arduo è vivere con la cronicizzazione. Per questo è importante che il paziente venga interpellato. Le sue narrazioni sono importanti.

La mia è una semplice testimonianza, non ho competenze tecniche o scientifiche. In questo percorso che non è solo riabilitativo, ma è anche di fede e ringraziamento, vorrei restituire a tutte le donne e gli uomini che mi sono stati e mi sono vicini, qualcosa di quello che mi è stato donato. Il dono di medici, infermieri, operatori sociosanitari, fisioterapisti, terapisti occupazionali, logopedisti, psicologi, è stata una continua ricerca di senso, oltre che di professionalità; e ricerca, pure, di oggetti che mi aiutassero ad affrontare la vita quotidiana, un calzante per infilarsi i pantaloni, delle posate col manico grande per ricominciare a mangiare da sola. Il sentirsi compresi, oltre che aiutati, è fondamentale. E quando penso che in fondo, a 66 anni, senza figli, con una vita piena già vissuta, potevo anche chiuderla lì, e non fare tutta questa fatica, penso pure a San Paolo, quando scrive nella prima lettera ai Corinzi: “Nessuna tentazione vi ha finora colti se non umana, or Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita, affinché la possiate sostenere”. La tentazione era preferire morire, o era la prova stessa? Non lo so, ma lo spirito cristiano che ha pervaso la mia riabilitazione mi ha comunque sorretto. E ne sono grata.

di Alessandra Comazzi