· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Lettera da Gerusalemme di una suora comboniana

Di là dal muro
e tra gli uomini

 Di là dal muro e tra gli uomini  DCM-006
01 giugno 2024

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore».
E ora i nostri piedi si fermano
alle tue porte, Gerusalemme!
[…]
Domandate pace per Gerusalemme:
sia pace a coloro che ti amano,
sia pace sulle tue mura,
sicurezza nei tuoi baluardi.
Per i miei fratelli, per le mie sorelle e i miei amici
io dirò: «Su di te sia pace!».

(Salmo 121)


Arrivare a Gerusalemme durante la più lunga situazione di guerra degli ultimi sessant’anni non è stata sicuramente una scelta facile, né è stata una scelta comprensibile da molti amici e amiche. Eppure pur essendo arrivata nel novembre 2023 sono ancora qui, dopo mesi, a guardarmi intorno e a cercare di capire dove sono veramente atterrata.

In realtà fin dall’inizio la quotidianità di Gerusalemme sembrava quasi non toccata dalla realtà della violenza che si sta compiendo a meno di 100 km. Io stessa ho cominciato il corso di arabo (a cui spero seguirà un corso di ebraico moderno), mi muovo nelle viuzze vuote della città vecchia, posso fermarmi al Santo Sepolcro, dove si respira un’aria profondamente silenziosa, a meditare perché mancano le lunghe file di pellegrini rumorosi.

Gerusalemme è sempre una città particolarmente affascinante ma soprattutto estremamente complessa, dove realtà diverse si incontrano (e spesso si scontrano). Una realtà, quella della città vecchia, dove il tempo sembra essersi fermato, dove le pietre parlano del tempo di Cristo, dove c’è ancora chi indossa abiti dell’est Europa del xix secolo, una realtà dove la convivenza è fragile e sempre minacciata, anche tra cristiani, al punto che tutto si muove semplicemente secondo lo “statu quo” (come è chiamata la relazione tra le diverse chiese nell’utilizzo di spazi cristiani che dovrebbero essere semplicemente comuni), cioè solo secondo tradizione.

La complessità delle relazioni si percepisce anche nel resto di Gerusalemme, divisa tra zona araba e zona ebraica, dove nemmeno le festività sono in comune perché ogni gruppo segue il suo calendario e le sue tradizioni. In questo tempo senza pellegrini e turisti, Gerusalemme potrebbe ancora più chiaramente mostrare la sua natura di città dell’incontro possibile, malgrado una realtà così profondamente divisa che nasce da una storia di dolore, sopraffazione e ingiustizia.

Certamente, il 7 ottobre, con l’ineffabile violenza perpetrata ha creato un punto di non ritorno nella già precaria e difficile situazione di convivenza tra due popoli. Il senso di insicurezza, la paura di ciò che potrebbe avvenire segnano la vita di tutti coloro che vivono qui: e al centro di tutto questo c’è l’esperienza della storia di chi ci ha preceduto e che non possiamo assolutamente considerare passata perché è la nostra storia, la storia che ci ha resi ciò che siamo. Così da una parte c’è la storia dell’olocausto, ma anche delle persecuzioni e dei ghetti, dall’altra l’esperienza dell’essere stati espulsi dalla propria terra e dalle proprie case, di essere rifugiati di seconda e terza generazione senza possibilità di ritorno. Una storia di grandi sofferenze, ma anche di grandi paure da entrambe le parti, quella dell’annientamento reale, sociale e culturale così come della creazione di una barriera di paura, diffidenza e sfiducia. É sicuramente una storia che viene continuamente consolidata dalle violenze perpetrate in maniera indiscriminata da una parte e dall’altra, che conta soprattutto giovani vittime, uccise dopo un rave o semplicemente perché vivono in una zona del mondo chiamata Gaza da cui semplicemente non hanno il permesso di uscire.

Èuna storia anche chiaramente manipolata dalla politica per creare la paura dell’altro: il muro esistente come simbolo di una divisione fatta dall’essere umano. Io vivo accanto al muro, lo vedo ogni mattina quando mi alzo e ogni sera prima di andare a dormire, ed è il segno più chiaro di ciò che non dovrebbe essere: dividere le persone, creare i nemici. Perché se non ci si incontra, se non ci si conosce non è possibile nemmeno riconoscersi nell’umanità che accomuna.

Eppure, anche in questa realtà così divisa e sfiduciata ci sono segni di speranza, o forse meglio dire persone che portano la speranza, che cercano l’incontro, che desiderano la pace, e che, malgrado l’attacco del 7 ottobre e la risposta militare di Israele a Gaza, con le loro vittime, si pongono le fondamentali domande su come sarà possibile costruire un futuro in comune. Sono giornalisti, dottori, rabbini, che non hanno perso la fiducia nella possibilità di condividere gli spazi, di creare comunicazione e forse, in un futuro si spera non lontano, comunione. Non possiamo, infatti, non pensare che ci sia anche una opportunità, una possibilità di cambiamento. Certamente ci vorrà molto tempo perché ci sono tantissime ferite da risanare e non solo quelle fisiche, ma quelle della storia, della paura, delle ingiustizie e c’è tanto dolore da metabolizzare che «tende spesso ad essere egoistico» , afferma il Card. Pizzaballa in una recente intervista. Questo è il compito che come Chiesa siamo chiamati a vivere: divenire sempre di più un luogo di incontro: incontro con i cristiani della Terra Santa che vivono in modo particolare il loro essere minoranza da ogni punto di vista, incontro con tutte le persone di buona volontà che desiderano costruire una società fondata sulla giustizia, sull’equità, sulla pace, a partire dall’incontro con il dolore dell’altro.

Questo dà senso alla nostra presenza come missionarie: essere luoghi e possibilità di incontro, di conoscenza e aiutare nel creare spazi per immaginare un futuro diverso, un futuro che non consenta di pensare solo in forme egoistiche, di prevaricazione ma un futuro che sia possibilità di vita per chiunque abiti questa terra, per tutti coloro che chiamano questa Terra Santa la loro terra, la terra della loro vita. Non ci sono vincitori in questa tragedia, solo vittime di politiche distorte, di progetti di potere, di quell’arroganza così terribilmente disumana che vede nella prevaricazione una politica possibile, soprattutto vantaggiosa. La distruzione di cui siamo testimoni ogni giorno è distruzione della nostra umanità, della possibilità di crescere nell’humanum che ci accomuna. Fino a quando non si comincerà ad ascoltare le storie degli altri, fino a quando non ci saranno spazi di incontro non ci sarà possibilità di cambiamento, di pace, e di futuro per questa terra e per ogni terra.

di Mariolina Cattaneo
Missionaria comboniana

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