Don Giuseppe Rossi «non è santo perché martire, ma è martire perché è santo». Potrebbe sembrare un gioco di parole ma è invece la verità che emerge dalla vita di questo «umile operaio della vigna del Signore», che viene beatificato dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, in rappresentanza di Papa Francesco, domani pomeriggio, domenica 26 maggio, a Novara.
Lo conferma la quotidianità di don Rossi, plasmata nell’infanzia da una famiglia cristiana, nella giovinezza dai superiori del seminario, tra i quali non si può dimenticare il venerabile don Silvio Gallotti, e nella maturità dal ministero pastorale, vissuto intensamente «tra l’altare e la cura pastorale delle persone a lui affidate» mai disgiunti tra loro.
Le pagine del suo diario, scritto durante il ministero parrocchiale quale rifugio personalissimo dei suoi pensieri, offrono lo spaccato genuino di un uomo, di un cristiano e di un prete semplice che, pur consapevole dei propri limiti e di quelli delle persone a lui affidate, non cede mai allo sconforto. Come scrive: «Dopo cinque mesi di vita parrocchiale, sento come un bisogno di una sintesi. Quale risultato del mio lavoro? Nullo o quasi. Non vedo alcun frutto. Isolato col dolore che mi penetra nelle ossa, non trovo un metodo di conquista. Dopo questa amara constatazione non getto le armi perché non dispero ancora del tutto. [...] Mi getto disperatamente tra le braccia di Gesù di cui devo seguirne le orme verso la croce, il Calvario. Si scatenano le bufere umane che tutto paiono travolgere: con Dio sono oltre la grigia nuvolaglia delle passioni, nell’atmosfera serena dell’azzurro infinito, nella pace divina. Allora soffro con gioia perché unito al mio Dio sulla croce. Così io rivivo alla nuova vita che è nella morte del corpo» (28 marzo 1939).
Traspare la solitudine di un parroco «alle prime armi», accettata con serenità in un mondo inaccessibile dall’esterno, in cui solo la coscienza può entrare, e accanto il dramma profondo di anime che si salvano o si perdono senza che il parroco possa intervenire. Don Giuseppe non si scoraggia ma si avventura con tenacia e passione nella vita pastorale in una continua tensione, che racconta ciò che vorrebbe e ciò che il duro quotidiano gli rivela. Questa profonda ferita, costituita dall’impermeabilità al Vangelo da parte del suo gregge, emerge ancora in modo lucido dopo cinque anni di ministero: «Vedevo gli altri come vedevo me stesso, non dubitando che potessero pensare in altro modo. Non sapevo che esistesse un mondo diverso dal modello che mi ero formato nella testa» (17 marzo 1943).
E poi: «Fortunato chi si adopera ad addolcire le sofferenze altrui, chi spande olio di carità e di compassione sulle ferite sanguinanti. Il conforto recato agli altri è balsamo per il nostro cuore, è gioia che lenisce le nostre croci» (27 gennaio 1943).
Così don Rossi senza cedere mai al cinismo di una realtà segnata ormai dalla guerra fratricida entra progressivamente in quel sano ottimismo cristiano, tanto che di se stesso scrive: «Mi piacciono le cose belle: amo la poesia, la pittura, la musica. Ammiro la natura nei fiori; nel verde della primavera nascente, nell’orrido maestoso dei monti. Tutto nel creato ha un ritmo, un colore, una parola. La vita è bella quando le infinite vibrazioni si intonano con quelle dell’anima» (20 febbraio 1943).
E non teme anche quando i colpi si riversano su di lui: «La veste nera si vorrebbe su di un rogo: perché serva di incentivo alla sadica gioia degli impantanati nel vizio. La storia si ripete perché la natura dell'uomo non muta» (23 gennaio 1943).
Diventa man mano consapevole, che non sarà lui «ad operare miracoli nei cuori», come si era immaginato negli anni del seminario, ma la Grazia di Dio trasformerà lui in «un miracolo per il cuore» dei molti che incontrerà. Egli fa sue le parole di sant’Agostino: «Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus» (Serm. 340, 1), declinate su se stesso: «per voi sono prete, ma con voi sono cristiano».
Così don Giuseppe costruisce giorno dopo giorno nel suo ministero di parroco insieme al suo Signore quella testimonianza che lo porta «su ali d’aquila» a toccare con l’anima le vette del Cielo, ma lo fa maturare sulla terra attraverso le asperità del quotidiano ministero alla pienezza di una vita credente e credibile, mediante un esercizio paziente e diuturno delle sue virtù umane e cristiane, anche in grado eminente. È il cuore del pastore che ha maturato negli anni la virtù della comprensione, della tenerezza di Dio, come fa emergere in una riflessione in cui spiega che la vera felicità sta nell’essere se stessi là dove la mano provvidente di Dio scrive le sue pagine, anche quelle di un piccolo paese di montagna. L’offerta finale della vita non diventa niente altro che la conseguenza di questa continua tensione, che lo brucia e lo infiamma soprattutto nei momenti di difficoltà.
Aveva scritto sull’immaginetta della sua prima messa, prendendo in prestito un versetto dall’apostolo Paolo: «Darò quanto ho, anzi darò tutto me stesso per le anime vostre». L’ha pienamente realizzato non secondo i suoi slanci giovanili ma secondo quelle vie che la Grazia gli ha messo di fronte.
Don Rossi è stato ucciso perché era parroco, cioè pastore, responsabile della popolazione in un tempo di grande sbandamento; perché nella sua mitezza ha voluto e ha saputo restare sempre al suo posto, provocando con il suo atteggiamento disarmato, chiaro e lineare, quell’odio di chi voleva a tutti i costi un nuovo «Cristo da sacrificare sull’altare». Per questo la sua lezione vera è il gesto inerme «del restare e del morire». Come il chicco di grano, «che produce molto frutto». Se il suo dramma in vita era stato quello di non riuscire a trasmettere i valori cristiani, esso viene paradossalmente risolto con il suo sacrificio, momento altissimo più eloquente di qualsiasi catechesi.
Si tratta di un comportamento esemplare per ogni ministro della Chiesa che sia responsabile di una Comunità nei confronti della quale avverte il primato della carità pastorale anche a costo della vita, trasformandosi alla fine lui stesso come Gesù «in un’ostia santa e gradita a Dio», spaccata da mani feroci assassine ma offerta sull’altare di un mondo che ritrova ancora nel sacrificio salvifico di Cristo e suo, uniti insieme, quella «vera pace che il mondo degli uomini, da solo, non potrà mai dare».
di Marco Canali
Delegato vescovile per la causa di canonizzazione di don Giuseppe Rossi