· Città del Vaticano ·

La Nota «Gestis verbisque» del Dicastero per la dottrina della fede / 1.

Motivazioni pastorali
e manipolazione
del rito liturgico

 Motivazioni pastorali  e manipolazione del rito liturgico  QUO-118
25 maggio 2024

La Nota del Dicastero per la dottrina della fede Gestis verbisque sulla validità dei sacramenti trova la sua origine dalla necessità di precisare alcuni punti fermi in ordine alla celebrazione degli stessi alla luce di continue richieste giunte alla Santa Sede per valutare se e per quali motivi molte distorsioni del rito possano rendere invalido il sacramento amministrato da sacerdoti con eccessiva creatività.

La Nota prima di tutto cerca di cogliere le motivazioni di tali interventi, che al di là delle intenzioni appaiono comunque manipolatori del rito consegnato dalla Chiesa. Al paragrafo 3 si fa riferimento a motivazioni di carattere pastorale: «In talune circostanze si può constatare la buona fede di alcuni ministri che, inavvertitamente o spinti da sincere motivazioni pastorali, celebrano i sacramenti modificando le formule e i riti essenziali stabiliti dalla Chiesa, magari per renderli, a loro parere, più idonei e comprensibili».

Vale la pena fermarsi sui due aggettivi — idonei e comprensibili — per proporre alcune riflessioni in merito all’idea di pastorale e a quella di partecipazione alla liturgia che vi sono sottese, tenendo conto che la liturgia è già di per se stessa pastorale. Innanzitutto appare una concezione di pastorale e di partecipazione di tipo quasi esclusivamente noetico. La pastorale apparirebbe in questo modo la dottrina dei principi dai quali dedurre poi l’attività dei pastori: prima quindi vengono le “idee” da trasmettere e in relazione a quelle se ne deduce come tradurle nell’azione, con la conseguenza che le circostanze e i contesti suggeriscono di volta in volta quale sia la traduzione migliore.

Legata a questa prospettiva vi è poi la concezione del sacramento come segno che rimanda a un significato. Semplificando un po’, del sacramento così inteso sarebbe importante la realtà significata, cioè la grazia soprannaturale, il segno avrebbe solo valore di rimando e dunque, in determinati contesti, sarebbe legittimo intervenire su di esso per renderlo maggiormente comprensibile e favorire in questo modo una partecipazione più consapevole. Emerge così una concezione di liturgia di natura quasi esclusivamente pedagogico-didattica e, di conseguenza, di partecipazione a essa come capacità e possibilità di comprenderla.

Non è estraneo a questa posizione un certo neo-gnosticismo, che riduce la salvezza a realtà meramente interiore, per cui importante è ciò che raggiunge l’intelletto, «dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94).

In questa prospettiva il rito è funzionale alla conoscenza e può quindi essere adattato in modo da favorirla. Si dimentica così che l’accesso al mistero è dato invece dal rito stesso in quanto azione di Cristo nel suo Corpo. Siamo paradossalmente ricondotti al secolo scorso, quando, a causa della secolare dissociazione di scolastica memoria, il rito era compreso nella nozione di culto come azione dell’uomo virtuoso che onora Dio e il sacramento come azione santificatrice di Dio in Cristo, indagato nella sua essenza e nella sua capacità di essere causa della grazia. Già Romano Guardini però ammoniva: «La liturgia non riguarda la conoscenza, ma la realtà [...]. Non è facile oggi parlare di questo, in quanto la liturgia è scomparsa dalla nostra coscienza religiosa. Però la liturgia stessa non è pura conoscenza, ma piuttosto piena realtà, e, accanto al conoscere, comprende anche altro: un fare, un ordine, un essere» (Formazione liturgica, p. 17).

In relazione a ciò la partecipazione consapevole e piena alla liturgia non può essere ricondotta alla sola comprensione dei segni e delle parole, ma costituisce un vero e proprio essere partecipi all’atto, che allo stesso tempo è atto di Cristo e della Chiesa. Siamo condotti in questo modo al valore dell’agire simbolico in ordine al quale la Nota rileva una lacuna formativa sulla scia di quanto recentemente osservato da Papa Francesco: «La post-modernità — nella quale l’uomo si sente ancor più smarrito, senza riferimenti di nessun tipo, privo di valori perché divenuti indifferenti, orfano di tutto, in una frammentazione nella quale sembra impossibile un orizzonte di senso — è ancora gravata dalla pesante eredità che l’epoca precedente ci ha lasciato, fatta di individualismo e soggettivismo (che ancora una volta richiamano pelagianesimo e gnosticismo) come pure di uno spiritualismo astratto che contraddice la natura stessa dell’uomo, spirito incarnato e, quindi, in se stesso capace di azione e di comprensione simbolica» (Desiderio desideravi, n. 28).

Per questo motivo la Nota incornicia le considerazioni di natura dottrinale con quelle di carattere pastorali. Se infatti all’inizio si fa riferimento e si cerca di comprendere le motivazioni dell’agire manipolatorio, al temine si riprende l’aspetto pastorale in riferimento alla presidenza liturgica e all’arte del celebrare (nn. 23-27). I paragrafi non entrano nel merito degli aspetti più propriamente celebrativi, ma offrono spunti di riflessione per una corretta interpretazione del ruolo della presidenza alla luce delle due tradizionali espressioni in persona Christi – nomine Ecclesiae.

La prima ricorda il primato di Cristo nella celebrazione, la seconda l’ecclesialità della celebrazione sacramentale che non può tradursi solo nell’aspetto dell’intenzione interiore (cfr. nn. 18-20), ma trova la sua manifestazione nel rispetto delle norme liturgiche non come imposizioni che vengono dall’esterno e quindi in ipotesi mortificanti, ma come disciplina di comunione ecclesiale. Insegna Papa Francesco: «Non si tratta di dover seguire un galateo liturgico: si tratta piuttosto di una “disciplina” — nel senso usato da Guardini — che, se osservata con autenticità, ci forma: sono gesti e parole che mettono ordine dentro il nostro mondo interiore facendoci vivere sentimenti, atteggiamenti, comportamenti. Non sono l’enunciazione di un ideale al quale cercare di ispirarci, ma sono un’azione che coinvolge il corpo nella sua totalità, vale a dire nel suo essere unità di anima e di corpo» (Desiderio desideravi, 11).

di Angelo Lameri
Pontificia Università Lateranense