· Città del Vaticano ·

Parole in cammino: “Fermarsi”
È mortifero non agire per non contaminarsi ma rallentare è il segreto della pace

C’è ozio e ozio...

  C’è ozio e ozio...  QUO-114
21 maggio 2024

Capita in ogni viaggio che si rispetti il momento in cui si vuole o deve fermare. E in quel “viaggio” che è il cammino della vita le soste non mancano. Solo chi è in movimento può fermarsi e questo gesto dell'arrestare il cammino può essere letto in molti modi a partire dalle cause e dalla finalità per cui si sceglie (o si è obbligati) a fermarsi. Ne abbiamo parlato venerdì scorso alla Radio Vaticana nella nuova puntata di Parole in cammino con Valerio De Felice e Damiano Garofalo. Il primo ha voluto riassumere il suo intervento in un testo, che riportiamo qui a fianco, mentre il secondo, professore di storia del cinema all’Università La Sapienza di Roma, si è concentrato su alcuni film, come ad esempio Il grande Lebowski ed in particolare su due pellicole del grande regista inglese Alfred Hitchcock: La donna che visse due volte e La finestra sul cortile. Nel primo film assistiamo ad una scena in cui la protagonista si ferma per lungo tempo ad ammirare un quadro esposto in un museo. A sua volta la donna è seguita, spiata, da un uomo che si ferma anche lui per guardare la donna che guarda il ritratto che, guarda caso, è il ritratto di una donna a lei identica (senza essere lei però). La straniante situazione suggerisce che la contemplazione dell’arte ci dice qualcosa su di noi: fermarsi a leggere l’arte è anche fermarsi a leggere noi stessi. Quando vediamo un quadro, quando leggiamo un libro, tutto si ferma, ma questo permette un allargamento e un approfondimento della conoscenza. Il secondo film presenta il caso diverso, il fermarsi qui non è una scelta ma una necessità: il protagonista si ferma per cause di forza maggiore, perché è paralizzato da una frattura della gamba. Dalla sua finestra vede la vita continuare, scorrere, “muoversi”, ma lui è fermo.

Il richiamo a questo classico della cinematografia è stato lo spunto per riflettere sulla famosa espressione del Papa, “balconear”, riferita all'atteggiamento di chi vive la vita guardandola “dal balcone”, senza buttarsi dentro l'avventura dell’esistenza, senza sporcarsi le mani per paura del rischio e di rimanere “contaminato”.

Continuando la conversazione Damiano ci ha poi fatto ascoltare una canzone dei Beatles, I'm so tired, tratta dal White Album del 1968. Spinti da George Harrison i quattro musicisti di Liverpool si erano recati in India come per una pausa di riflessione che invece ha portato ad un surplus di produzione artistica con la nascita di questo celebre doppio album. Nella canzone il protagonista canta la sua stanchezza, la sua stasi (Sono così stanco, non so cosa fare) ma al tempo stesso il fatto che la sua mente non si ferma ma continua a creare. L’uomo non riesce mai pienamente a fermarsi, è sempre inquieto, sempre in movimento. Da qui il riferimento, fatto da Valerio, alla celebre poesia di Leopardi Canto notturno del pastore errante dell'Asia in cui il poeta riflette sulla condizione dell’essere umano colpito dal tedio che invece non tocca la vita degli animali.

Il fenomeno del “fermarsi” assume quindi sfumature diverse, rivelando una natura ambigua: può esserci un fermarsi che è rimanere impantanato in una “palude”, in un labirinto mentale e psicologico, ed è un fermarsi oscuro, mortifero; ma c’è anche un fermarsi come scelta di spezzare la “catena del fare”, interrompendo quel processo di produzione-consumo che contraddistingue la società contemporanea. Un fermarsi per fare qualcosa di diverso, anzi, per “non fare”, ma dedicarsi ad un gesto libero, gratuito, come ad esempio la semplice contemplazione o la coltivazione dell'arte in un otium che non è inoperoso ma al contrario fecondo, ri-generante. Del resto la creazione si compie il settimo giorno, il giorno del riposo, in cui Dio si è fermato. È proprio quel giorno che dona significato a tutto il resto, è il giorno della libertà, la libertà dal fare, dal produrre, dall’essere sempre e a tutti i costi “prestanti, performativi”.

Qui viene in soccorso il ricordo della scuola: con i due giovani interlocutori abbiamo concordato che il momento più ricco a scuola era quello della ri-creazione. Spesso il Papa ha parlato in questi termini e proprio sabato scorso, il giorno dopo la puntata del programma radiofonico, parlando, all'Arena di Verona, della pace e della guerra (spesso frutto dell'impazienza) ha affermato l'importanza del “rallentare”, un verbo che «può suonare come una parola fuori posto, in realtà è l’invito a ricalibrare le nostre attese e le nostre azioni adottando un orizzonte più profondo e più ampio. Si tratta di fare una “rivoluzione” in senso astronomico: andare a cercare la pace, e come si fa questo? Sempre con il dialogo: la pace si fa nel dialogo. Riconoscere gli altri, e rispettarli con saggezza. La sfida enorme che abbiamo davanti è quella di andare controcorrente per riscoprire e custodire questi ritmi naturali. Tante volte le guerre vengono dall’impazienza di fare presto le cose e non avere quella pazienza di costruire la pace, lentamente, con il dialogo. La pazienza è la parola che dobbiamo ripetere continuamente: la pazienza per fare la pace. E se qualcuno — lo vediamo nella vita naturale — se qualcuno ti insulta, ti viene subito la voglia di dirgli il doppio e poi il quadruplo e così si va moltiplicando l’aggressione, le aggressioni si moltiplicano. Dobbiamo fermare, fermare l’aggressione».

di Andrea Monda