Il Papa a Verona
Non spettatori della guerra ma seminatori di speranza
Da San Zeno il Papa ha raggiunto in automobile l’anfiteatro romano simbolo della città scaligera, dove, alla presenza di 12.500 persone, ha presieduto l’incontro “Arena di pace – Giustizia e pace si baceranno”, nel corso del quale ha risposto a 5 domande. Di seguito il testo del dialogo del Pontefice nell’Arena di Verona con alcuni rappresentanti dei diversi Tavoli di lavoro.
1. LA PACE VA ORGANIZZATA
(Tavolo Democrazia Diritti)
Papa Francesco, sono Mahbouba Seraj, sono venuta qui, nell’Arena 2024, da Kabul, in Afghanistan. Ho sempre creduto in lei, Santo Padre: lei è un uomo di pace e lei può fare molto. Quello che consiglio è che, affinché lei abbia maggiore successo, dovrà preparare delle istituzioni di pace, dovrà porre tutti i suoi sforzi nella costituzione di istituzioni di pace. Nel mio Paese, l’Afghanistan, noi abbiamo avuto l’illusione della democrazia, l’illusione della pace. Da 44 anni a questa parte, il mio Paese è in guerra e vorrei sapere che si può fare: lei, Padre, cosa ci consiglia? Ma non solo per l’Afghanistan: il suo consiglio illuminato vale per tutto il mondo. Come possiamo far funzionare l’opera di pace? E noi siamo tutti al suo fianco, in questa impresa. [Traduzione dei versi che sono stati pronunciati da Mahbouba Seraj]: “La moschea, La Mecca, il Tempio, sono tutte scuse. La vita di Dio è nella tua casa”.
La domanda è su quale tipo di leadership può portare avanti questo compito che tu hai espresso così profondamente. La cultura fortemente marcata dall’individualismo — non da una comunità — rischia sempre di far sparire la dimensione della comunità: dove c’è individualismo forte, sparisce la comunità. E questo, se noi passiamo ai termini politici e demografici, forse è la radice delle dittature. Così va. Spariscono la dimensione della comunità, la dimensione dei legami vitali che ci sostengono e ci fanno avanzare. E inevitabilmente produce delle conseguenze anche sul modo in cui si intende l’autorità. Chi ricopre un ruolo di responsabilità in un’istituzione politica, oppure in un’impresa o in una realtà di impegno sociale, rischia di sentirsi investito del compito di salvare gli altri come se fosse un eroe. E questo fa tanto male, questo avvelena l’autorità. E questa è una delle cause della solitudine che tante persone in posizione di responsabilità confessano di sperimentare, come pure una delle ragioni per cui siamo testimoni di un crescente disimpegno. Se l’idea che abbiamo del leader è quella di un solitario, al di sopra di tutti gli altri, chiamato a decidere e agire per conto loro e in loro favore, allora stiamo facendo nostra una visione impoverita e impoverente, che finisce per prosciugare le energie creative di chi è leader e per rendere sterile l’insieme della comunità e della società. Gli psichiatri dicono che una delle aggressioni più sottili è la idealizzazione: è un modo di aggredire.
E questa è una visione ben lontana da quella espressa dal detto bantu: “Io sono perché noi siamo”. La saggezza di questo detto sta nel fatto che l’accento è posto sul vincolo tra i membri di una comunità: “Noi siamo, io sono”. Nessuno esiste senza gli altri, nessuno può fare tutto da solo. Allora l’autorità di cui abbiamo bisogno è quella che innanzi tutto è in grado di riconoscere i propri punti di forza e i propri limiti, e quindi di capire a chi rivolgersi per avere aiuto e collaborazione. L’autorità è essenzialmente collaborativa; altrimenti sarà autoritarismo e tante malattie che ne nascono. L’autorità per costruire processi solidi di pace sa infatti valorizzare quanto c’è di buono in ognuno, sa fidarsi, e così permette alle persone di sentirsi a loro volta capaci di dare un contributo significativo. Questo tipo di autorità favorisce la partecipazione, che spesso si riconosce essere insufficiente sia per la quantità che per la qualità. Partecipazione: non dimenticare questa parola. Lavoriamo tutti, tutti partecipiamo nell’opera che portiamo avanti. Una buona partecipazione che voi descrivete così: «Espressione di domande e proposta di risposte collettive a criticità e aspirazioni, produttrice di cultura e nuove visioni del mondo, energia civile che rende individui e comunità protagonisti del proprio futuro» (Documento Democrazia). In una società o in un Paese o in una città, anche in una piccola impresa, se non c’è partecipazione le cose non funzionano, perché noi siamo comunità, non siamo solitari. Non dimenticare questa parola: partecipazione. È importante.
E una grande sfida oggi è risvegliare nei giovani la passione per la partecipazione. C’è una parolina che dimentichiamo quando diciamo: “faccio io”, “andrò io”... La parolina qual è? Insieme. Questa forza dell’insieme, la partecipazione è questo. Bisogna investire sui giovani, sulla loro formazione, per trasmettere il messaggio che la strada per il futuro non può passare solo attraverso l’impegno di un singolo, per quanto animato delle migliori intenzioni e con la preparazione necessaria, ma passa attraverso l’azione di un popolo — il popolo è protagonista, non dimentichiamo questo —, in cui ognuno fa la propria parte, ciascuno in base ai propri compiti e secondo le proprie capacità. E vi farei io una domanda: in un popolo, il lavoro dell’insieme è la somma del lavoro di ognuno? Soltanto quello? No, è di più! È di più. Uno più uno fa tre: questo è il miracolo di lavorare insieme.
2. LA PACE VA PROMOSSA
(Tavolo Migrazioni)
[João Pedro Stédile]: Papa Francesco, vi porto un abbraccio forte di tutto il popolo “sem terra” del Brasile: siamo uniti e preghiamo per te. Porto anche parole del nostro vescovo dei “senza terra”, il vescovo Pedro Casaldáliga Plá, che purtroppo non è più con noi. Egli ci disse: «Maledette siano tutte le recinzioni, maledette siano tutte le proprietà private che ci impediscono di vivere e di amare». Grazie.
Papa Francesco, sono Elda Baggio, operatore umanitario di “Medici senza frontiere” e sono qui con João Pedro Stédile, che ci ha raggiunto dal Brasile e porta con sé tutta la sapienza e l’esperienza del movimento dei “senza terra”. Anche a noi sta ovviamente a cuore la pace e la costruzione della pace e abbiamo sperimentato che il primo passo consiste nel mettersi dalla parte dei migranti, delle vittime, ascoltarli, lasciare che possano raccontarsi e far sentire la loro voce. Vivere tutto questo però disarma i nostri cuori, gli sguardi, le menti e rende evidenti le ingiustizie che esistono. Ma non è un passo facile da fare: come vivere questa conversione di prospettiva, questo cambiamento di prospettiva? Che cosa ci può aiutare a farlo?
È proprio il Vangelo che ci dice di metterci dalla parte dei piccoli, dalla parte dei deboli, dalla parte dei dimenticati. Il Vangelo ci dice questo. E Gesù, con il gesto della lavanda dei piedi che sovverte le gerarchie convenzionali, ci dice lo stesso. È sempre Lui che chiama i piccoli e gli esclusi e li pone al centro, li invita a stare in mezzo agli altri, li presenta a tutti come testimoni di un cambiamento necessario e possibile. Con le sue azioni Gesù rompe convenzioni e pregiudizi, rende visibili le persone che la società del suo tempo nascondeva o disprezzava. Questo è molto importante: non nascondere le limitazioni. Ci sono persone molto limitate, fisicamente, spiritualmente, socialmente, economicamente... Non nascondere le limitazioni. Gesù non le nascondeva. E Gesù lo fa senza volersi sostituire a loro, senza strumentalizzarle, senza privarle della loro voce, della loro storia, dei loro vissuti. A me piace quando vedo persone con limitazioni fisiche che partecipano agli incontri, come in questo caso, perché Gesù non le nascondeva, questa è la verità. Ognuno ha la propria voce, sia che parli con la lingua sia che parli con la propria esistenza. Ognuno di noi ha la propria voce. E tante volte noi non sappiamo ascoltarla perché pensiamo ciascuno alle proprie cose o, peggio ancora, andiamo tutto il giorno con il telefonino e questo ci impedisce di vedere la realtà: tante volte, no?
Come avete scritto nel documento di un vostro tavolo di lavoro, per porre fine ad ogni forma di guerra e di violenza bisogna stare a fianco dei piccoli, rispettare la loro dignità, ascoltarli e fare in modo che la loro voce possa farsi sentire senza essere filtrata. Sempre vicino ai piccoli, perché la loro voce si faccia sentire. Incontrare i piccoli e condividere il loro dolore. E prendere posizione al loro fianco contro le violenze di cui sono vittime, uscendo da questa cultura dell’indifferenza che si giustifica tanto.
Una domanda — io so che voi sapete questo —: abbiamo pensato oggi a quanti bambini e bambine sono costretti a lavorare, lavori da schiavi, per guadagnarsi la vita? I piccoli... Quel bambino che forse mai ha avuto un giocattolo perché deve andare di qua, di là, di là a guadagnarsi il pane, forse nelle discariche cercando cose da vendere... Ce ne sono tanti, di bambini così, che non sanno giocare perché la vita li ha costretti a vivere così. I piccoli: i piccoli soffrono. E soffrono per colpa del maltempo? No, per colpa nostra. Siamo noi i responsabili. “No, Padre, io no, perché io sono...”. Tutti siamo responsabili, tutti siamo responsabili di tutti. Ma oggi credo che il “premio Nobel” che possiamo dare a tanti, a tanti di noi, sia il “premio Nobel” di Ponzio Pilato, perché siamo maestri nel lavarcene le mani.
Ecco, questa è la conversione che cambia la nostra vita, la conversione che cambia il mondo. Una conversione che riguarda tutti noi singolarmente, ma anche come membri delle comunità, dei movimenti, delle realtà associative a cui apparteniamo, e come cittadini. E riguarda anche le istituzioni, che non sono esterne o estranee a questo processo di conversione. Il primo passo è riconoscere che non siamo noi al centro... [vede un uomo anziano che cammina al centro dell’Arena]... al centro c’è questo anziano: è tanto importante come ognuno di noi. Al centro non sono le nostre visioni, le nostre idee. E poi accettare che il nostro stile di vita inevitabilmente ne sarà toccato e modificato. Quando stiamo a fianco dei piccoli siamo “scomodati”. I piccoli ci scomodano, perché toccano, toccano il cuore. Camminare con i piccoli ci costringe a cambiare passo, a rivedere ciò che portiamo nel nostro zaino, per alleggerirci di tanti pesi e zavorre e fare spazio a cose nuove. Allora è importante vivere tutto questo non come una perdita, ma come un arricchimento, una potatura sapiente, che toglie ciò che è senza vita e valorizza ciò che è promettente. Una potatura non è una perdita: è dolorosa, sì, al momento ti toglie qualcosa, ma è una cosa che ti dà vita. Dobbiamo vivere la vicinanza con i piccoli come una potatura. Guardiamo la lista dei piccoli, di tanti “piccoli” che abbiamo noi. E pensiamo a una categoria che tutti noi abbiamo in famiglia, piccoli nel senso, diciamo, di diminuiti per l’età: pensiamo ai nonni. Mi viene in mente una storia molto bella che non è una cosa successa storicamente, è un racconto. C’è una bella famiglia — papà, mamma, figli — e con loro abitava il nonno: vecchietto, già, e mangiava con loro. Ma il nonno, invecchiando, prendeva la zuppa così [fa il gesto con la mano tremolante] e si sporcava tutto. A un certo punto il papà disse, un giorno: “Il nonno domani incomincerà a mangiare in cucina, perché mangia male, e noi così possiamo invitare gente con noi”. Il giorno dopo, il nonno incominciò a mangiare in cucina. La settimana seguente, il papà torna a casa, e c’è il bambino di cinque anni che gioca, e gioca con legni, pezzi di legno… “Ma cosa stai facendo?” — “Ah, un tavolino, papà!” — “Un tavolino? Perché?” — “Per te, quando sarai vecchio”. Stiamo attenti con i vecchi: i vecchi sono saggezza. Non dimentichiamo questo. Lo dico con dolore: questa società tante volte nasconde i vecchi, abbandona i vecchi. Grazie.
3. LA PACE VA CURATA
(Tavolo Ambiente/Creato)
Mi chiamo Vanessa Nakate, sono una attivista ugandese, una attivista per il clima. La prima volta che ho visto il Papa è stato quando è venuto in visita nel mio Paese. L’ho visto sulla sua papamobile, ho detto: sono contenta, anche se siamo divisi da un finestrino, ma almeno l’ho visto. Non avrei mai immaginato che nove anni dopo sarei stata sullo stesso palcoscenico dove c’è lui... è veramente un onore, un onore infinito! Non è necessario avere la meglio come soggetti singoli, ma come umanità, come collettività; un pianeta vivibile è una soluzione ottimale per tutti, non per alcuni.
[Annamaria Panarotto] Ecco vi rileggo il versetto che ha detto adesso Vanessa: Non abbiamo necessità di vincere come individui, dobbiamo vincere insieme come umanità! Un pianeta sano e vivibile è una vittoria per tutti, non solo per alcuni! Ecco, caro Papa Francesco, sono una delle mamme No-Pfas del Veneto. Le mamme si fanno sentire, sempre! Un gruppo che è impegnato da molti anni contro l’inquinamento delle acque qua nel Veneto che ha ammalato i nostri figli e sono qui con Vanessa Nakate, giovane e coraggiosa custode della casa comune venuta dall’Uganda. La pace si fa insieme. Non può esserci pace fra gli esseri umani se gli uomini e le donne non fanno pace con il Creato. Costruire relazioni di giustizia fra tutti i viventi richiede tempo. Come ritrovarlo in quest’epoca segnata da velocità e immediatezza? Dopo, caro Papa Francesco, volevo dire che oggi siamo qua in molti, moltissimi e siamo tutti artigiani di pace, siamo rappresentanti di gruppi, movimenti, associazioni, Chiese, ma siamo e vogliamo essere, rimanere artigiani di pace. Però sentiamo anche l’urgenza quasi di costringere la politica ad avere visioni diverse, a dare risposte più immediate. Allora volevo chiederti se ci puoi aiutare e capire che passi fare...
Grazie! Mi è piaciuto... soprattutto mi è piaciuto quel tuo “però”. Grazie! Sto guardando quel cartello: “Smilitarizziamo mente e territori”. Stiamo parlando di pace, ma voi sapete che le azioni che in alcuni Paesi sono più redditizie sono quelle delle fabbriche delle armi? È brutto questo, è brutto. E così non possiamo smilitarizzare, perché è un affare molto grande. Voi guardate l’elenco dei Paesi che fabbricano le armi, e vedete un po’ che bell’affare è quello. Preparare per la morte. Che cosa brutta! E tuo “però” sta indicando con il dito questa situazione di contraddizione.
Nella nostra società viviamo questa tensione: da un lato, tutto ci spinge ad agire velocemente, siamo abituati ad avere una risposta immediata alle nostre richieste e diventiamo impazienti se si verifica un ritardo. Per esempio, la rivoluzione digitale degli ultimi anni ci ha permesso di essere costantemente connessi, di poter comunicare facilmente con persone molto distanti, di poter svolgere il nostro lavoro a distanza. Dovremmo avere più tempo a disposizione e invece ci accorgiamo che siamo sempre in affanno, rincorrendo l’urgenza dell’ultimo minuto. Dall’altro lato, sentiamo che tutto questo non è naturale. Questo è “bellicoso”, questo è guerra, non è naturale. Nella nostra società si respira un’aria stanca, c’è la stanchezza nell’aria, tanti non trovano ragioni per portare avanti le loro attività quotidiane, appesantiti dalla sensazione di essere sempre fuori tempo, come intrappolati nella ripetizione di quanto si fa, poiché non si ha la forza o il tempo di cercare un’armonia. La pace non si inventa da un giorno all’altro. La pace va curata. Se noi non curiamo la pace ci sarà la guerra, piccole guerre, grandi guerre. La pace va curata, e oggi nel mondo c’è questo peccato grave: non curare la pace! Il mondo è in corsa, occorrerebbe a volte saper rallentare la corsa e non lasciarci travolgere dalle attività e fare spazio dentro di noi all’azione di Dio, all’azione dei fratelli, all’azione della società che cerca il bene comune.
“Rallentare” può suonare come una parola fuori posto, in realtà è l’invito a ricalibrare le nostre attese e le nostre azioni. Si tratta di fare una “rivoluzione” in senso astronomico: andare a cercare la pace, e come si fa questo? Sempre con il dialogo: la pace si fa nel dialogo. Riconoscere gli altri, rispettarli con saggezza. La sfida enorme che abbiamo davanti è quella di andare controcorrente per riscoprire e custodire contesti in cui tutto ciò sia possibile viverlo con gli altri. E non dobbiamo inventare tutto da zero, dobbiamo farci carico della storia.
Tante volte le guerre vengono dall’impazienza di fare presto le cose e non avere quella pazienza di costruire la pace, lentamente, con il dialogo. La pazienza è la parola che dobbiamo ripetere continuamente: la pazienza per fare la pace. E se qualcuno — lo vediamo nella vita naturale — se qualcuno ti insulta, ti viene subito la voglia di dirgli il doppio e poi il quadruplo e così si va moltiplicando l’aggressione, le aggressioni si moltiplicano. Dobbiamo fermare, fermare l’aggressione. Una volta — è stata una scena molto divertente — c’era una persona che è andata a comprare qualcosa, e si vede che non le davano il prezzo giusto e allora ha gridato di tutto, ha gridato di tutto. E il signore del negozio lo ascoltava e quando quello ha finito di gridare gli ha detto: “Signore, ha finito?” – “Sì, ho finito!” – “Vattene a spasso”. Non l’ha detto con queste parole, con parole più forti, ma l’ha mandato a fare una passeggiata. Quando noi vediamo che le cose incominciamo a essere bollenti, fermiamoci, facciamo una passeggiata o diciamo una parola, e le cose andranno meglio. Fermarsi in tempo, fermarsi in tempo!
4. LA PACE VA SPERIMENTATA
(Disarmo)
[Sergio Paronetto] Pochi versi di una persona molto attiva nelle nostre Arene precedenti: Giulio Girardello, prete missionario, poeta, amore di Giulio Battistella, altro testimone e promotore delle Arene. Vorrei però premettere in 30 secondi, Papa Francesco, una cosa. Vorrei dirti, a nome di tanti, il nostro grazie per il tuo coraggio. Vorrei dirti che ti siamo vicini, che vogliamo aiutarti perché aiutando te aiutiamo noi stessi, aiutiamo il mondo a diventare umani, e siamo corresponsabili camminando accanto a te. Giulio diceva: «Solo da mani piantate nel sentimento del mondo nasce la pace. Io ho appena due mani e il sentimento del mondo per fare pace».
[Andrea Riccardi] Io vorrei dire che essere qui sembra un sogno: un popolo, con Papa Francesco, che crede nella pace. Però, il mondo è diverso, il mondo è molto diverso perché ci sono guerre, e lo sappiamo: guerre aperte, e ci siamo messi dalla parte delle vittime che sono tante. Ma anche in questo mondo c’è un’assenza di pensieri e di disegni di pace che frustrano le speranze della fine della guerra di tanti popoli. Vede, Papa Francesco, la pace è bandita come un’ingenuità, anzi, come dice lei: la pace è diventata una parolaccia, e questo è estremamente triste perché la pace è la vita di tutti, la pace è una grande benedizione. Ma l’alternativa c’è: dobbiamo confessare che molti, uomini e donne comuni, si sentono impotenti, non sanno cosa fare, e l’impotenza genera indifferenza e l’indifferenza diventa poi, alla fine, anche consenso, complicità a decisioni sbagliate, a sentieri di guerra, il che è davvero drammatico. Allora, quello che volevamo chiederle è: come essere, in questo momento così complesso, artigiani di pace, mediatori anche di fronte ai conflitti vicini e lontani? Grazie.
Grazie. Grazie delle vostre riflessioni. Se c’è vita, se c’è una comunità attiva, se c’è un dinamismo positivo nella società, allora ci sono anche conflitti e tensioni. È un dato di fatto: l’assenza di conflittualità non significa che vi sia la pace, ma che si è smesso di vivere, di pensare, di spendersi per ciò in cui si crede. C’è un detto spagnolo che dice: “L’acqua ferma è la prima a marcire, a decomporsi”. Le persone ferme sono le prime ad ammalarsi.
Nella nostra vita, nelle nostre realtà, nei nostri territori saremo sempre chiamati a fare i conti con le tensioni e i conflitti. Davanti a questo non si può stare fermi: tu devi fare un’opzione, tu devi essere creativo. Un conflitto è proprio una sfida alla creatività. Da un conflitto mai si può uscire, primo, da soli: da un conflitto mai uscirai da solo, ci vuole la comunità, ci vuole l’aiuto sia della famiglia, degli amici, ma mai da un conflitto si può uscire da soli. E, secondo, da un conflitto si esce soltanto “da sopra”. Altrimenti andrai giù. Il conflitto ha qualcosa di labirintico: da un labirinto tu non puoi uscire da solo, ci vuole almeno il filo, quello di Arianna, che poi ti aiuterà a uscire. E da un conflitto si esce per essere migliori, “da sopra”. Da un conflitto non si può uscire con anestesia, no, da un conflitto è necessario uscire con realismo: io sono nel labirinto; dobbiamo essere capaci di dare un nome ai conflitti, prenderli in mano e uscire, uscire da sopra e uscire accompagnati, almeno con il filo. Nella nostra vita saremo sempre chiamati a fare passi avanti con i conflitti, a dialogare con i conflitti.
Spesso siamo tentati di pensare che la soluzione per uscire dai conflitti e dalle tensioni sia quella della loro rimozione. No! Li ignoro, li nascondo, li marginalizzo. No. Questa è una bomba a orologeria. Così facendo amputo la realtà di un pezzo scomodo ma anche importante. Sappiamo che l’esito finale di questo modo di vivere i conflitti è quello di accrescere le ingiustizie e generare reazioni di malessere, di frustrazione, che possono tradursi anche in gesti violenti. E questo lo vediamo anche nella politica, nella società. Quando nella politica, qualsiasi politica, si nascondono i conflitti, questi scoppiano dopo, e scoppiano male. Non c’è l’armonia. Né in famiglia né nella società si possono nascondere i conflitti. Per questo, quando ci sono problemi in famiglia, dobbiamo parlarne per chiarirli. E quando ci sono problemi nella società, dobbiamo condividerli per risolverli. Ma da soli non si esce.
Un’altra risposta dal fiato corto è quella di cercare di risolvere le tensioni facendo prevalere uno dei poli in gioco, e questo è suicidio, perché si riduce la pluralità di posizioni a un’unica prospettiva. Oggi il Vescovo mi ha fatto vedere l’atto di nascita di un grande, Romano Guardini, che è nato qui a Verona. Lui diceva che sempre i conflitti si risolvono su un piano superiore, perché così i conflitti si trasformano in lievito di nuova cultura, di nuove cose per andare avanti. L’uniformità è un vicolo cieco: invece di andare avanti si va sotto; l’uniformità non serve, serve l’unità, e per raggiungere l’unità bisogna lavorare con i conflitti. Quando si ha paura nei confronti della pluralità, possiamo dire che quella famiglia, quella società psicologicamente e culturalmente si suicida.
Il primo passo da fare per vivere in modo sano tensioni e conflitti è riconoscere che fanno parte della nostra vita, sono fisiologici, quando non travalicano la soglia della violenza. Quindi non averne paura: benvenuti, per risolverli. Non averne paura. Non temere se ci sono idee diverse che si confrontano e forse si scontrano. In queste situazioni siamo chiamati a un esercizio diverso. Lasciarci interpellare dal conflitto, lasciarci provocare dalle tensioni, per metterci in ricerca: come risolvere, come andare alla ricerca dell’armonia. Questo è un lavoro che noi non siamo abituati a fare: eppure è la ricchezza, è la ricchezza sociale, questo, sia della famiglia sia della società. Ci sono dei conflitti? Andiamo, parliamo dei conflitti, confrontiamoci per risolverli. Per favore, non avere paura dei conflitti, siano conflitti famigliari, siano sociali. Ed è chiaro che se io non ho paura del conflitto, sono portato a fare il dialogo. E il dialogo ci aiuta a risolvere i conflitti, sempre. Ma il dialogo non è arrivare all’uguaglianza, no, perché ognuno ha la propria idea; ma ci fa condividere la pluralità. Il peccato dei regimi politici che sono finiti nelle dittature è che non ammettono la pluralità; e la pluralità è nella società più grande come in famiglia: la nuora con la suocera — bella cosa da risolvere, no? —, ma quel conflitto familiare va risolto come va risolto un conflitto mondiale. Dobbiamo imparare a vivere con i conflitti: quando i figli adolescenti incominciano a chiedere cose che non siamo abituati a dare loro, c’è un conflitto familiare: ascoltarli, dialogo. Papà che dialoga con i figli, mamma che dialoga con i figli, cittadini che dialogano tra loro... Dialogo. E i conflitti ti fanno progredire. Una società senza conflitto è una società morta; una società dove si nascondono i conflitti è una società suicida; una società dove si prendono i conflitti per mano e si dialoga è una società di futuro.
5. LA PACE VA PREPARATA
(Tavolo Lavoro ed economia)
È un grande onore Papa Francesco essere qui. Lei è un leader della pace. Siamo qui con dodicimila costruttori di pace. Vi portiamo parole di pace dalla Terra Santa.
[Roberto Romano] Cercherò di rendere efficace quello che è stato detto, perché in italiano non è la stessa cosa: «Alzo gli occhi con speranza, non attraverso il mirino dei fucili, canta una canzone per amore, non per la guerra! Non dire che il giorno arriverà, porta quel giorno perché è un sogno dentro di te; e in tutte le piazze della città, proprio in tutte credo, tifano solo per la pace!». Questa era la prima poesia, cantico, elogio alla speranza. Adesso c’è una seconda rappresentazione di quello che possiamo vedere passo dopo passo: «Domani fioriranno i limoni, i tuoi occhi danzeranno, e i tuoi figli giocheranno ancora e padri e figli si incontreranno. La mia città, sì, proprio la mia città, la città della pace è la città degli ulivi».
Papa Francesco mi chiamo Maoz Inon, vengo da Israele e i miei genitori sono stati uccisi da Hamas. Papa Francesco, mi chiamo Aziz Sarah, vengo dalla Palestina e questa guerra e i soldati israeliani mi hanno tolto mio fratello. Il nostro dolore, la nostra sofferenza ci hanno avvicinati, ci hanno portati a dialogare per creare un futuro migliore. Noi siamo imprenditori e crediamo che la pace sia l’impresa più grande da realizzare. Siamo qui con Roberto Romano che condivide le nostre idee. Non ci può essere pace senza un’economia di pace. Un’economia che non uccide, che non produce guerra, un’economia invece basata sulla giustizia; e chiediamo: i giovani come possono essere imprenditori di pace quando i luoghi di formazione spesso sono influenzati da paradigmi tecnocratici e dalla cultura del profitto ad ogni costo?
Credo che davanti alla sofferenza di questi due fratelli, che è la sofferenza di due popoli, non si può dire nulla..., non si può dire nulla. Loro hanno avuto il coraggio di abbracciarsi. E questo non è solo coraggio e testimonianza di volere la pace, ma anche è un progetto di futuro. Abbracciarci. Ambedue hanno perso i familiari, la famiglia si è rotta per questa guerra. A che serve la guerra? Per favore, facciamo un piccolo momento di silenzio, perché non si può parlare troppo di questo, ma “sentire”. E guardando l’abbraccio di questi due, ognuno dal proprio cuore preghi il Signore per la pace, e prenda una decisione interiore di fare qualcosa perché finiscano le guerre. In silenzio, un attimo...
E pensiamo ai bambini in questa guerra, in tante guerre... Quale futuro avranno? Mi vengono in mente i bambini ucraini che vengono a Roma: non sanno sorridere. I bambini nella guerra perdono il sorriso. E pensiamo ai vecchi che hanno lavorato tutta la vita per portare avanti questi due Paesi, e adesso... Una sconfitta, una sconfitta storica e una sconfitta di tutti noi. Preghiamo per la pace, e diciamo a questi due fratelli che portino questo desiderio nostro e la volontà di lavorare per la pace al loro popolo. Grazie fratelli!
Queste le parole con cui il Papa ha concluso l’incontro.
Abbiamo ascoltato le donne. E il mondo ha bisogno di guardare alle donne per trovare la pace. Sono le mamme.
Le testimonianze di queste coraggiose costruttrici di ponti fra israeliani e palestinesi ce lo confermano.
Sono sempre più convinto che «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli — i popoli! —; nella loro capacità di organizzarsi e anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento» (Discorso al ii Incontro mondiale dei movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). Il popolo deve avere coscienza di sé stesso e agire come popolo, agire con questa volontà di fare pace.
Voi, però, tessitrici e tessitori di dialogo in Terra Santa, per favore, chiedete ai leader mondiali di ascoltare la vostra voce, di coinvolgervi nei processi negoziali, perché gli accordi nascano dalla realtà e non dalle ideologie. Ricordiamo che le ideologie non hanno piedi per camminare, non hanno mani per curare le ferite, non hanno occhi per vedere le sofferenze dell’altro. La pace si fa con i piedi, le mani e gli occhi dei popoli coinvolti, insieme tutti.
La pace non sarà mai frutto della diffidenza, frutto dei muri, delle armi puntate gli uni contro gli altri. San Paolo dice: «Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato» (Gal 6, 7). Fratelli e sorelle, le nostre civiltà in questo momento stanno seminando morte, distruzione, paura. Seminiamo, fratelli e sorelle, speranza! Siamo seminatori di speranza! Ognuno cerchi il modo di farlo, ma seminatori di speranza, sempre. È quello che state facendo anche voi, in questa Arena di Pace: seminare speranza. Non smettete. Non scoraggiatevi. Non diventate spettatori della guerra cosiddetta “inevitabile”. No, spettatori di una guerra cosiddetta inevitabile, no. Come diceva il vescovo Tonino Bello: “In piedi tutti, costruttori di pace!”. Tutti insieme. Grazie.