Hic sunt leones
Un “diluvio universale”
La narrazione è tradizionalmente il primo dispositivo interpretativo e conoscitivo di cui dispone ogni comunicatore. È proprio con l’intenzione di attribuire senso e significato alle parole, andando al di là dei luoghi comuni, che l’autore di questa rubrica tutta africana intende condividere con i lettori l’esperienza vissuta in questi giorni a Nairobi, capitale keniana, vero e proprio crocevia dell’Africa orientale. L’intento è quello di esporre, nei limiti del possibile, trama e ordito, dritto e rovescio, di una realtà anni luce distante dall’immaginario nostrano.
Chi scrive può certamente affermare di aver constatato direttamente, con i propri occhi, i danni causati a beni e persone da una devastante calamità, davvero senza precedenti nella storia non solo di questo Paese, ma anche di quelli limitrofi. È infatti piovuto ininterrottamente per intere settimane. L’espressione biblica che meglio si addice a quanto è avvenuto è quella di “Diluvio universale”, proprio come la troviamo nel libro della Genesi.
Stiamo parlando di una macroregione africana sconvolta da inesorabili inondazioni che hanno seminato morte e distruzione: dal Kenya alla Tanzania, dal Burundi al Rwanda, per non parlare della Somalia o del settore orientale della Repubblica Democratica del Congo. Come sempre, a pagare il prezzo più alto è la povera gente, proprio come nel caso di Nairobi: persone che sopravvivono in condizioni spesso subumane nella periferia urbana, inondata da una fiumana di fango maleodorante e detriti. Le intense piogge hanno imperversato a dirotto, mentre i fiumi in piena muggivano ininterrottamente, tracimando detriti d’ogni genere nei luoghi pianeggianti. «È vero che siamo a Nairobi il cui nome è tutto un programma, ma quando è troppo è troppo!» ha sbottato George Kamau, un giovane universitario che assieme al comboniano padre Maurizio Binaghi e ad altri volontari si è prodigato nel portare soccorso alla stremata popolazione.
George frequenta la facoltà di linguistica della University of Nairobi ed è un profondo conoscitore delle lingue di matrice nilotica e bantu. Sua madre è luo e suo padre kikuyu. In effetti, con tutta la pioggia che da settimane è venuta giù, il suo sfogo è più che plausibile. Il nome Nairobi trae infatti le sue radici dall’espressione maasai «Enkare Nyrobi» che significa letteralmente «acqua fredda». Ma andando al di là di queste considerazioni, viene spontaneo domandarsi quali possano essere le ragioni di queste intemperie che hanno messo in ginocchio l’intera macroregione africana. Innanzitutto è bene precisare che i meteorologi avevano previsto forti piogge, ma non erano stati in grado di valutarne l’entità. Si tratta di una calamità causata dalla combinazione di due fenomeni meteorologici: El Niño e il Niño indiano, con il risultato che la superficie dell’oceano Indiano è risultata essere più calda del solito, favorendo così l’evaporazione e l’intensità delle precipitazioni.
È evidente che quanto è avvenuto è legato in gran parte al cosiddetto “Global warming”, il riscaldamento globale che sta avendo un impatto devastante sui cambiamenti climatici, particolarmente in Africa. Su questo argomento abbiamo scritto ripetutamente sulle pagine di questo giornale, sottolineando un dato che spesso viene misconosciuto dai grandi player internazionali. E che cioè il continente africano contribuisce solo con il 4-4,5 per cento alle emissioni di gas serra.
Tornando al racconto su Nairobi, è bene precisare che è l’asprezza e crudeltà di quanto è avvenuto non può prescindere dal suo passato. Questa metropoli africana negli anni è cresciuta a dismisura. Basti pensare che all’inizio degli anni Settanta la popolazione residente era di poco superiore al mezzo milione, mentre oggi la città vera e propria supera di poco i cinque milioni e l’intera area metropolitana conta sette milioni di abitanti. Come ebbe a dire il compianto Ryszard Kapuściński, indimenticabile giornalista polacco e africanista per vocazione: «Nairobi è la città dalle mille contraddizioni perché è Inferno e Paradiso». Da una parte svettano imponenti grattaceli che già negli anni Novanta segnavano la cosiddetta skyline, con la sola differenza che oggi il loro numero è cresciuto all’inverosimile. Per non parlare dei centri commerciali extra-lusso e delle autostrade a pagamento finanziate e realizzate dalle imprese cinesi per conto del governo locale. E cosa dire dei quartieri residenziali dove alloggiano gli stranieri, poco importa che si tratti dei funzionari delle Nazioni Unite o di banchieri e uomini d’affari. Dall’altra però campeggia l’esatto contrario, le 110 baraccopoli che costellano la capitale dove sopravvive in condizioni penose il 60 per cento e più della popolazione cittadina. Kariobangi, Korogocho, Dandora e Mathare sono quelle più densamente popolate. In questi formicai umani le case sono a dir poco fatiscenti, baracche di lamiere spesso senza luce e acqua corrente. Il lettore potrà dunque facilmente immaginare quale sia stato lo sfacelo generato dalle piogge in questi bassifondi dell’umanità.
Il dottor Gianfranco Morino, responsabile dei progetti in Africa della ong World Friends e fondatore del Neema Hospital di Nairobi, ritiene che la situazione sia gravissima, soprattutto dal punto di vista umanitario. Secondo il medico piemontese, originario di Aqui Terme, non ci sono parole in grado di descrivere adeguatamente quanto è avvenuto. Tutto, ma davvero tutto è stato sommerso dai liquami fuoriusciti non solo dai corsi d’acqua, ma anche dalle tradizionali fogne a cielo aperto. Un pantano che in alcuni punti ha superato il metro di altezza, costringendo la gente a trovare riparo sui tetti in lamiera delle loro già fatiscenti abitazioni. «Il rischio più grande che corriamo, considerando il degrado delle baraccopoli è che si scatenino delle epidemie, come il colera e il tifo, soprattutto nei quartieri più poveri di Nairobi».
In questo inferno di dolore, i bambini, quasi tutti senza sandali, riescono sempre a giocare. A volte rincorrendo un fatiscente pallone fatto di stracci e plastica compressi con le stringhe dei pacchi-dono, altre misurandosi in vere e proprie maratone nei vicoli infangati, sono sempre e comunque capaci di riempire il tempo. Da quelle parti, peraltro, chissà quando riprenderanno le scuole considerando che, stando all’ultimo monitoraggio governativo, 1.161 resteranno chiuse (forse per sempre) perché spazzate via dalle acque. Padre Binaghi, direttore di “Napenda Kyushu”, un programma per giovani di strada tossicodipendenti disseminati nelle baraccopoli, insieme ad un manipolo di volontari, grazie anche alla generosità del Sovrano Ordine di Malta, si è impegnato in questi giorni nella distribuzione di materassi e coperte ai civili alluvionati, molti dei quali piangono le loro vittime.
Le cifre ufficiali fornite dalle autorità governative parlano di oltre 200 morti, altrettante le persone ferite, mentre oltre 200.000 sarebbero sfollate. Naturalmente è un computo che va preso col beneficio d’inventario anche perché è molto difficile riuscire a monitorare quanto realmente è avvenuto sia negli insediamenti urbani più svantaggiati, come anche nelle zone rurali.
Una cosa è certa: Nairobi è la cartina al tornasole delle diseguaglianze. Il fatto stesso che all’opulenza dei ricchi si contrapponga la miseria delle baraccopoli, la dice lunga. Alla Dichiarazione universale dei diritti umani si rende generalmente e formalmente omaggio, ma ciò che in quel fondamentale documento storico è scritto è ben lungi dall’essere attuato in larga parte del pianeta. La riprova sta nel fatto che a essere inghiottiti dal fango e dalla melma continuano ad essere gli ultimi, solo loro!
da Nairobi
Giulio Albanese