Adelaida
Adrián Bravi è un bibliotecario dell’università di Macerata. È anche uno scrittore in lingua italiana, benché sia nato a Buenos Aires e abbia mosso i primi passi letterari nel suo castigliano porteño, come si suol dire. E da un lato vien da pensare che un bibliotecario non abbia molta fantasia, che la sua “maggior parte” si spenda tra le “sudate carte” del suo mestiere. Dall’altra, Bravi è un argentino come Borges, che di fantasia ne aveva molta e fu direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires negli anni in cui divenne totalmente cieco. E come un nuovo Omero ritornò allora a comporre versi oralmente nelle forme metriche della tradizione, potente strumento mnemonico, ben più efficace del verso libero. Anche Bravi è un poeta della memoria orale, e non gli serve la fantasia se non per tentare di cucire gli strappi di una vita straordinariamente ordinaria, quella di un’artista argentina — scrittrice, poetessa, ceramista, scultrice — che nacque e morì nientemeno che a Recanati, figlia di un pittore italiano che emigrò a Buenos Aires per sottrarsi al fascismo e si trovò coinvolto con la sua famiglia nella dolente storia delle dittature susseguitesi laggiù fino al 1983.
Adelaida — un nome da regina — è anche il titolo di un piccolo volume edito da Nutrimenti, ed entrato nella dozzina del Premio Strega (pagine 144, euro 17), con cui Bravi ricostruisce l’esistenza di questa donna che nonostante la sua indomita vitalità ha portato dentro sé per tutta la vita le stimmate dell’agonia di un Paese segnato dalla violenza di Stato e dalla resistenza di gruppi rivoluzionari che tentarono negli anni Settanta di sovvertirne il copione. I figli di Adelaida, Mini e Lorenzo Ismael, coinvolti nella lotta armata dei montoneros, entrarono — entrambi molto giovani — nella lunghissima lista dei desaparecidos. Adelaida si salvò, come un’eroina tragica, per serbare la loro memoria e quella dei tanti amici che andarono incontro alla stessa sorte.
Ma anche lei, fuggita in Italia e rifugiatasi nella sua città natale, dovette fare i conti con la sua storia di madre sopravvissuta ai figli, senza che vi fosse un luogo e un tempo — o un tempio — per piangerli. Fu davvero un “passero solitario” ma con la netta coscienza della sua vicenda personale, la ricerca continua della dignità del vivere segnata da una ferita sempre aperta, dai “sovrumani silenzi” di cui era capace la sua anima. Silenzi che si trasformarono negli ultimi anni in una tacita “rimembranza” immersa nelle pagine del diario con cui sua figlia Mini raccontava il mondo alla sua bambina di nove mesi, che dovette abbandonare tra le braccia di una coppia di anziani sconosciuti poco prima di essere rapita per sempre dalla polizia politica nel giardino zoologico di Buenos Aires. Infine, Adelaida imparò a dimenticare, naufragando nel mare dell’Alzheimer e lasciando a noi la possibilità di risentire il suono della sua anima da lontano, come le sue amate campane di Recanati, attraverso il racconto di chi fu testimone, amico e custode dell’ultimo tratto della sua vita. Attraverso una delle ultime poesie di Adelaida Gigli.
Come sono chiare le campane di Sant’Agostino
grosse e sincere
prima che cada la notte dell’autunno
stanno chiamando o giocando da sole.
Come sono lucide le campane del mio chiostro
rosee, volatrici.
Sono qua, papà,
a casa mia.
Sono qua,
nella mia città.
Laggiù sono rimasti i figli immortali
amanti irrequieti e consumati.
Laggiù è rimasta la Grazia.
Sono qua, papà,
grattandomi il viso e con le scarpe nuove.
di Giovanni Ricciardi