· Città del Vaticano ·

Il magistero

 Il magistero  QUO-110
16 maggio 2024

Venerdì 10

Per i giovani
le crisi e
le sfide siano occasioni
di crescita

Il Merrimack College lavora per la formazione giovanile, ispirandosi al principio agostiniano di “coltivare la conoscenza per giungere alla saggezza”. Fa bene ricordare le circostanze in cui avete iniziato l’opera educativa fondata dai Padri Agostiniani nel 1947 a favore dei militari che tornavano dalla Seconda Guerra Mondiale.

A questi reduci da esperienze traumatiche, testimoni di orrori, era necessario ridar senso, speranza e fiducia.

Anche oggi i giovani vivono in mezzo a “criticità”: a livello economico-finanziario, lavorativo, politico, ambientale e valoriale, demografico e migratorio.

Anche a loro si insegni ad affrontare uniti le sfide, senza lasciarsene schiacciare.

Formare le nuove generazioni a vivere le difficoltà come opportunità, non per un futuro ricco di denaro e successo, quanto d’amore; insegnare a individuare e dirigere le risorse verso modelli improntati a giustizia e misericordia.

Nel lavoro didattico estendere i perimetri delle aule, per giungere ovunque «l’educazione può generare solidarietà, condivisione, comunione».

(All’Istituto di Educazione superiore “Merrimack College” in Massachusetts, Usa)

Il contributo sapienziale della teologia alle scienze e alle culture

La teologia è un prezioso ministero ecclesiale, perché appartiene alla fede cattolica rendere ragione della speranza. Ed è preziosa in società multietniche in continua mobilità, con interconnessione di popoli, lingue e culture.

Le sfide poste dal progresso tecno-scientifico — pensiamo all’intelligenza artificiale — costringono a “mettersi insieme” per comprendere cosa è degno dell’uomo, cosa nell’uomo è irriducibile, perché immagine di Dio.

La teologia deve potersi fare compagna di strada delle scienze. Fedeltà creativa alla tradizione, transdisciplinarità e collegialità sono gli “ingredienti” della vocazione del teologo nella Chiesa.

I teologi sono come gli esploratori mandati da Giosuè nella terra di Canaan: devono scoprire le giuste vie di accesso per l’inculturazione della fede.

La Tradizione è vivente. Allora deve crescere incarnando il Vangelo in ogni angolo della terra e in tutte le culture.

La transdisciplinarità dei saperi non è una moda del momento, ma un’esigenza della scienza teologica: essa “ascolta” le scoperte degli altri saperi per approfondire le dottrine della fede, mentre offre la sapienza cristiana per lo sviluppo umano delle scienze.

La responsabilità di tale compito comporta anche la collegialità e sinodalità del cammino di ricerca.

Questo servizio non si può realizzare senza riscoprire il carattere sapienziale della teologia. Perché la fede cattolica opera attraverso la carità, altrimenti è morta.

La teologia sapienziale è teologia dell’amore.

(All’International network of societies for catholic theology - ins e ct )

Senza l’unione dell’uomo con Dio la Liturgia è una
aberrazione

La liturgia ci ricorda [che] la Chiesa, come Popolo convocato, si dedica alla ricerca del suo fine, quello che si perpetuerà nella Gerusalemme celeste, quando ci uniremo ai cori degli angeli nel canto del Santo.

L’uomo è per la liturgia, perché è per Dio, ma una liturgia senza questa unione dell’uomo con Dio è un’aberrazione.

E un’aberrazione sarebbe una liturgia schiava del rubricismo, che non favorisce l’unione con Dio.

Lavorare per rendere vita la liturgia quotidiana, affinché esprima, interroghi e nutra questa relazione. In tal modo, le nostre comunità saranno «tabernacoli di Dio tra gli uomini», che cercano nella preghiera «l’invisibile battito del cuore dello Sposo». Anime «che non solo amino, adorino, lodino, ma che consolino, riparino ed espiino» (cfr. Cristina de la Cruz, Escritos, 121).

(All’Istituto superiore di Liturgia - Ateneo universitario San Paciano di Barcelona, Spagna)

Dar voce
agli innocenti
morti
privi
di acqua
e di pane

Il tema della desertificazione mi dà l’opportunità di ricordare l’appello rivolto da san Giovanni Paolo ii al mondo a favore di questa parte dell’Africa il 10 maggio 1980 a Ouagadougou.

Era una voce supplichevole che risuona ancora oggi per le persone povere e vulnerabili del Sahel; la voce di coloro che non hanno voce, degli innocenti morti perché mancavano loro l’acqua e il pane.

Ogni incontro con una persona o un popolo in povertà interroga. Come eliminare o alleviare la loro sofferenza?

Alcuni Paesi di questa Regione stanno attraversando crisi che minacciano la pace, la stabilità, la sicurezza.

Fenomeni legati al terrorismo, alla precarietà, al cambiamento climatico e alle lotte intercomunitarie, aggravano la vulnerabilità degli Stati e la povertà dei cittadini, con, come conseguenza, la migrazione.

Facendo eco a Giovanni Paolo ii , reitero il suo appello: operate per la sicurezza, la giustizia e la pace nel Sahel! Non è più tempo di aspettare, bisogna agire!

(Messaggio nel 40° anniversario della creazione della Fondazione Giovanni Paolo ii per il Sahel)

Lunedì 13

Il dovere
di custodire
l’unità

I fedeli della vostra Chiesa sono conosciuti in India e nel mondo per il vigore della devozione. È una fedeltà radicata nella testimonianza di san Tommaso: siete custodi della predicazione apostolica.

Avete avuto tante sfide nella vostra storia travagliata, la quale in passato ha pure visto fratelli nella fede commettere contro di voi azioni sciagurate. Eppure siete rimasti fedeli al Successore di Pietro.

E dove c’è obbedienza c’è Ecclesia; dove c’è disobbedienza c’è lo scisma. Anche con la sofferenza, ma andare avanti.

Le tradizioni orientali sono tesori nella Chiesa. Specie in un tempo che taglia le radici e misura tutto, purtroppo anche l’atteggiamento religioso, sull’utile e sull’immediato, l’Oriente cristiano permette di attingere a fonti antiche e sempre nuove di spiritualità.

Coltivare il senso di appartenenza alla vostra Chiesa sui iuris, affinché il grande patrimonio liturgico, teologico, spirituale e culturale possa ancor più risplendere.

E chiedere la giurisdizione per i migranti in Medio Oriente. Io desidero aiutarvi, senza però sostituirvi, perché la natura della vostra Chiesa sui iuris vi abilita, oltre che a un esame delle situazioni, anche ad adottare i provvedimenti opportuni.

Negli ultimi tempi ho indirizzato lettere e rivolto un videomessaggio per avvertire della pericolosa tentazione di volersi concentrare su un dettaglio, a cui non si vuole rinunciare, a discapito del bene comune.

La deriva dell’autoreferenzialità porta a non sentire nessun’altra ragione se non la propria. Qui il diavolo, il divisore, si insinua, contrastando il desiderio che il Signore ha espresso prima di immolarsi: che noi fossimo «una sola cosa», senza dividerci, senza rompere la comunione.

Custodire l’unità è un dovere, soprattutto quando si tratta di sacerdoti che hanno promesso obbedienza e da cui il popolo credente si aspetta l’esempio della carità e della mansuetudine.

Lavoriamo con determinazione per custodire la comunione e preghiamo senza stancarci perché i nostri fratelli, tentati dalla mondanità che porta a irrigidirsi e a dividere, possano rendersi conto di essere parte di una famiglia più grande.

Orgoglio, recriminazioni, invidie non vengono dal Signore e non portano alla pace. Mancare di rispetto al Santissimo, Sacramento della carità e dell’unità, discutendo di dettagli celebrativi di quella Eucaristia che è il punto più alto della sua presenza tra noi, è incompatibile con la fede.

Il criterio guida veramente spirituale che deriva dallo Spirito Santo è la comunione.

Non si spenga la speranza, non ci si stanchi di aver pazienza, non ci si chiuda in pregiudizi che portano animosità.

Pensiamo alla missione di essere segno di amore, non scandalo per chi non crede! Pensiamo ai poveri e ai lontani, in India e nella diaspora.

La vita di tanti cristiani in molti luoghi è difficile, ma la differenza cristiana consiste nel rispondere al male col bene, nel lavorare per il bene di tutti gli uomini.

Come Tommaso, guardiamo alle piaghe di Gesù: sono visibili ancora oggi nel corpo di tanti affamati, assetati e scartati, nelle carceri, negli ospedali e lungo le strade.

Il Kerala è una miniera di vocazioni! Preghiamo perché continui a esserlo.

(A fedeli della Chiesa Siro-Malabarese)

Vicini
ai problemi e alle angosce del mondo

Vorrei sottolineare due dimensioni con parole attribuite a sant’Agostino: «Esto donum Deo ut sis donum Dei», fatevi dono per Dio, per essere dono di Dio.

Farsi “dono per Dio”. È il senso della vocazione monastica, che mette alla radice di ogni azione la preghiera, a cui san Benedetto raccomanda di non anteporre nulla.

Il Santuario della Madonna di Montevergine è posto come una vedetta e i fedeli vi accorrono, spesso a piedi, per trovarvi consolazione e speranza, come ricordano molti canti tradizionali, anche dialettali, che accompagnano i pellegrinaggi.

Ad accoglierli c’è l’icona della Madre di Dio, con grandi occhi a mandorla, pronti a raccogliere lacrime e preghiere, che mostra a tutti, sulle ginocchia, il Bambino Gesù.

Farsi “dono per Dio” vuol dire pregare per avere anche voi quegli occhi e per mostrare come Maria, il Signore presente nei vostri cuori.

Durante la seconda guerra mondiale, la vostra comunità ha avuto la grazia di accogliere la Sacra Sindone, portata in segreto perché fosse al sicuro dai bombardamenti. Anche questa è la vostra vocazione: custodire l’immagine di Cristo, per poterla mostrare ai fratelli.

Secondo: essere “dono di Dio”. Donarsi con generosità a chi sale al Santuario, perché, accostandosi ai Sacramenti si senta accolto sotto il manto della Madre.

L’essere monaci, fisicamente lontani dal mondo, ma spiritualmente vicinissimi ai suoi problemi e angosce, custodi nel silenzio della comunione con il Signore, e al tempo stesso suoi ospiti generosi nell’accoglienza, può rendervi, per chi vi incontra, segno vivente della presenza di Dio.

Chi viene da voi in cerca di luce non resti deluso. Avete la fortuna di essere ospiti nella Casa di Maria, di vivere custoditi da “Mamma Schiavona”, come affettuosamente è chiamata. Fate tesoro di questo.

(Ai benedittini dell’abbazia di Montevergine)

Un servizio
alla solidità degli
insegnamenti

Vi ringrazio per essere venuti a festeggiare i 140 anni della Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica e i 90 della Scuola Vaticana di Biblioteconomia. È importante sostenere persone che decidono di “fare ricerche accurate in ogni circostanza” per giungere alla verità.

Il vostro è un servizio alla “solidità degli insegnamenti ricevuti”, tanto necessaria in tempi di notizie a volte diffuse senza verifiche e ricerche.

Non bisogna mai compiacersi dei risultati ottenuti: siamo di fronte a sfide culturali decisive ed epocali.

Penso alla globalizzazione, al rischio dell’appiattimento e della svalutazione delle conoscenze; al rapporto complesso con le tecnologie; alle riflessioni sulle tradizioni culturali che devono proposte senza imposizioni; al bisogno di non escludere nessuno dalle fonti della conoscenza e di difendere tutti da ciò che di tossico, malsano e violento si può annidare nei social.

Le Scuole hanno conosciuto riforme profonde, ma devono continuare a confrontarsi con le necessità dei luoghi di conservazione del sapere e con altri analoghi istituti di formazione professionale, per apprendere e condividere idee ed esperienze, per crescere ed evitare l’autoreferenzialità.

Concretezza e apertura siano le stelle polari di un deciso rilancio.

(Alle Scuole vaticane paleografica, diplomatica e archivistica, e di biblioteconomia)

Martedì 14

No alla triste “congiura
sociale” che produce
abbandono e isolamento

Dio non abbandona i suoi figli. Nemmeno quando l’età avanza e le forze declinano, quando i capelli imbiancano e il ruolo sociale viene meno, quando la vita diventa meno produttiva e sembra inutile. Egli non non scarta alcuna pietra, anzi, le più “vecchie” sono la base sicura sulla quale le “nuove” possono appoggiarsi.

La Scrittura tutta è una narrazione dell’amore fedele del Signore, dalla quale emerge una consolante certezza: Dio continua a mostrarci misericordia in ogni fase della vita e in qualsiasi condizione ci troviamo, anche nei nostri tradimenti.

Nella Bibbia invecchiare è segno di benedizione. Eppure, nei salmi troviamo anche quest’invocazione al Signore: «Non gettarmi via nel tempo della vecchiaia» (Sal 71, 9). Un’espressione cruda. Fa pensare a Gesù che sulla croce gridò: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Nella Bibbia troviamo la certezza della vicinanza di Dio in ogni stagione della vita e il timore dell’abbandono, particolarmente nella vecchiaia e nel momento del dolore. Non si tratta di una contraddizione.

Troppo spesso la solitudine è l’amara compagna della vita di noi anziani.

Tante volte, da vescovo di Buenos Aires, mi è capitato di visitare case di riposo e di rendermi conto di quanto raramente le persone ricevessero visite: alcune non vedevano i loro cari da molti mesi.

Figli costretti
a emigrare

Sono tante le cause di questa solitudine: in molti Paesi, soprattutto i più poveri, gli anziani si ritrovano soli perché i figli sono costretti a emigrare.

Oppure, penso alle situazioni di conflitto: quanti anziani rimangono soli perché gli uomini sono chiamati a combattere e le donne, le mamme con bambini, lasciano il Paese per dar sicurezza ai figli.

Nelle città e nei villaggi devastati dalla guerra rimangono tanti vecchi soli, unici segni di vita in zone dove sembrano regnare abbandono e morte.

In altre parti esiste una falsa convinzione, radicata in alcune culture, che genera ostilità nei confronti degli anziani, sospettati di fare ricorso alla stregoneria per togliere energie vitali ai giovani; così che, in caso di morte prematura o malattia o sorte avversa che colpiscono un giovane, la colpa vien fatta ricadere su qualche anziano.

Questa mentalità va estirpata. È uno di quei pregiudizi dai quali la fede cristiana ci ha liberato, che alimenta una persistente conflittualità generazionale.

Quest’accusa rivolta ai vecchi di “rubare il futuro ai giovani” è molto presente oggi. Essa si riscontra, sotto altre forme, anche nelle società più avanzate.

Si è diffusa la convinzione che gli anziani fanno pesare sui giovani il costo dell’assistenza di cui hanno bisogno e sottraggono risorse al Paese.

Si tratta di una percezione distorta della realtà. È come se la sopravvivenza degli anziani mettesse a rischio quella dei giovani. Come se per favorire i giovani fosse necessario trascurare gli anziani o sopprimerli. La contrapposizione tra le generazioni è un inganno ed è un frutto avvelenato della cultura dello scontro.

Mettere i giovani contro gli anziani è una manipolazione inaccettabile.

La solitudine e lo scarto degli anziani non sono casuali né ineluttabili, bensì frutto di scelte – politiche, economiche, sociali e personali – che non riconoscono la dignità infinita di ogni persona.

Ciò avviene quando le persone diventano solo un costo, in alcuni casi troppo elevato da pagare. Spesso gli anziani stessi finiscono per essere succubi di questa mentalità e giungono a considerarsi un peso, desiderando per primi di farsi da parte.

Oggi molti cercano realizzazione in un’esistenza il più possibile autonoma e slegata dagli altri. Le appartenenze comuni sono in crisi, si affermano le individualità: è il passaggio dal “noi” all’“io”.

La famiglia, prima e più radicale contestazione dell’idea che ci si possa salvare da soli, è una delle vittime di questa cultura individualista.

Quando si invecchia, però, il miraggio dell’individualismo, l’illusione di non aver bisogno di nessuno e di poter vivere senza legami si rivela per quello che è; ci si trova invece ad aver bisogno di tutto, ma ormai soli, senza aiuto, senza qualcuno su cui fare affidamento. È una triste scoperta che molti fanno quando è troppo tardi.

La solitudine e lo scarto in alcuni casi sono il frutto di una esclusione programmata, una sorta di triste “congiura sociale”; in altri si tratta di una decisione propria. Altre volte ancora si subiscono fingendo che si tratti di una scelta autonoma.

La storia di Rut

Possiamo notare in molti anziani quel sentimento di rassegnazione di cui parla il libro di Rut quando narra della vecchia Noemi che, dopo la morte del marito e dei figli, invita le nuore Orpa e Rut a far ritorno al loro paese di origine.

Noemi — come tanti anziani oggi — teme di rimanere sola, eppure non riesce a immaginare qualcosa di diverso. Da vedova, è consapevole di valere poco ed è convinta di essere un peso per quelle due giovani che hanno tutta la vita davanti.

Pensa che sia meglio farsi da parte e invita le nuore a lasciarla e a costruire il futuro in altri luoghi. Le sue parole sono un concentrato di convenzioni sociali e religiose che sembrano immutabili e che segnano il suo destino.

Una delle due se ne va. Rut, invece, non ha paura di sfidare le consuetudini, sente che quell’anziana ha bisogno di lei e le rimane accanto. Rut insegna che all’invocazione “non abbandonarmi!” è possibile rispondere “non ti abbandonerò!”.

La nostra gratitudine va a tutte le persone che, con tanti sacrifici, hanno seguito l’esempio di Rut e si stanno prendendo cura di un anziano o mostrano quotidianamente vicinanza a parenti o conoscenti che non hanno più nessuno.

Stando vicino agli anziani, riconoscendo il ruolo insostituibile che hanno riceveremo tanti doni, tante benedizioni!

Non facciamo mancare la nostra tenerezza a nonni e anziani delle nostre famiglie, visitiamo coloro che sono sfiduciati.

All’atteggiamento egoistico contrapponiamo il cuore aperto di chi ha il coraggio di dire “non ti abbandonerò!”.

(Messaggio per la quarta Giornata mondiale dei nonni e degli anziani)