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Intervista con Arturo Mariani campione di calcio amputati e testimonial dello sport inclusivo

Il goal più bello?
Aiutare gli altri e sé stessi

 Il goal più bello? Aiutare gli altri e sé stessi  QUO-108
14 maggio 2024

Si possono raggiungere i propri sogni un passo alla volta, anche se quel passo lo puoi fare con una gamba sola. È quello che ha fatto Arturo Mariani, campione di calcio della Nazionale italiana amputati, che da quindici anni ispira tantissime persone con la propria storia condivisa attraverso conferenze, incontri e ben sei libri all’attivo, l’ultimo dei quali sviluppa il concetto di “proabilità” come superamento delle barriere nella convinzione che ognuno di noi, qualunque sia la sua condizione fisica, ha in sé delle risorse straordinarie.

Nato 31 anni fa con una gamba sola, Arturo ha dovuto affrontare una sfida dopo l’altra soprattutto durante l’infanzia: dalle difficoltà nel camminare ai dolori causati dalle protesi e poi l’accettazione di dover avere sempre le stampelle con sé. Oggi Arturo — che ha anche fondato la squadra Asd Roma Calcio Amputati — gira l’Italia per raccontare la sua esperienza e aiutare giovani in difficoltà a non arrendersi ma a trovare in sé stessi, attraverso lo sport, quella voglia di vivere che a volte sembra mancare.

Arturo Mariani sarà uno dei relatori del convegno internazionale su “Sport e Spiritualità” che si apre il 16 maggio all’Aula di San Luigi dei Francesi, a Roma, e che è stato organizzato dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione assieme all’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. In questa intervista con «L’Osservatore Romano», l’atleta racconta il suo percorso di vita e sportivo ed accoglie l’appello di Papa Francesco a promuovere uno sport che sia sempre più uno spazio inclusivo di fraternità umana.

La tua storia si può dire che inizi ancora prima della tua nascita — questo è certamente vero per tutti noi, ma forse nel tuo caso ancora di più — quando i tuoi genitori decisero di accoglierti pur sapendo che saresti nato con una sola gamba e forse anche con altre malformazioni. Cosa ha rappresentato questo atto d’amore, di coraggio, di accoglienza per te, come persona e poi, negli anni, come atleta?

Sicuramente questa loro decisione, questo atto di coraggio e soprattutto — come dicono sempre i miei genitori — un atto di fede, di affidamento ha posto un po’ le basi anche per la mia vita, sia da atleta sia come papà, come figlio, come fratello, come amico, perché penso che questo atto faccia la differenza. Quando tu ti direzioni con fiducia, con certezza, con abbandono verso la vita, i frutti e le risposte poi arrivano. È come se fosse un disegno che piano piano incomincia a mostrarsi e a delinearsi. È iniziato tutto da quel “sì” dei miei genitori che non smetterò mai di ringraziare e di nominare, perché hanno permesso veramente di far fluire quella vita che poi dentro di me ha generato anche importanti sogni, importanti risultati soprattutto a livello umano.

Se adesso c’è una crescente attenzione e sensibilità verso le persone con disabilità, certamente questa era molto meno radicata — questa sensibilità — 20, 25 anni fa, negli anni in cui eri un ragazzino. Com’è stata la tua esperienza di crescita e anche di relazione con gli altri nel tempo, considerando questa differente sensibilità rispetto ad oggi?

Prima, 20-30 anni fa, c’era un altro tipo di approccio e anche, se vogliamo, gli sguardi erano diversi; così come l’approccio linguistico era differente. Sicuramente, oggi dobbiamo fare ancora dei passi enormi verso l’inclusione vera: quando non si dovrà più parlare di inclusione significherà che avremo davvero raggiunto l’obiettivo. Ma quando io ero piccolo, ho vissuto spesso delle situazioni di discriminazione, situazioni in cui volevo fare sport e mi venivano chiuse le porte in faccia, venivo lasciato indietro. Le parole che venivano rivolte nei miei confronti erano: “Tu sei Arturo, non hai una gamba, non puoi fare determinate cose, non puoi accedere a determinati luoghi”, ed era normale così. Era normale così per gli altri, ma per me, per la mia famiglia non lo è mai stato. Non l’abbiamo mai accettato, abbiamo sempre lottato e combattuto affinché i miei diritti venissero rispettati.

Oggi si può dire che, a dispetto di queste difficoltà — grazie soprattutto alla tua forza di volontà — sei un uomo affermato. Se vogliamo, si può anche dire che sei un modello vincente, sicuramente nello sport. Hai giocato ad altissimi livelli, fino a disputare i Mondiali di calcio della tua categoria con la nazionale italiana. Però, cosa rappresenta per te lo sport, e cosa ti ha dato al di là di questi successi che tutti hanno potuto vedere?

Lo sport è stato per me un tramite davvero importante per scoprire me stesso, per capire davvero chi fossi, oltre a quelle etichette che la società mi dava. È stato un tramite per scoprire anche una connessione con il divino, con Dio, perché ogni volta che mi sono messo alla prova sul campo di calcio o facendo qualsiasi attività sportiva, ho percepito quel flusso che era scevro di ogni schema umano, se vogliamo. In quel momento lì ho percepito davvero un’armonia, una connessione più grande. Per me lo sport ha rappresentato — e rappresenta tutt’oggi, perché mi alleno praticamente quasi tutti i giorni — uno strumento di connessione con me stesso. Poi, quando entri davvero in contatto con te stesso e sei in armonia con tutto quello che sei, con l’essenza della tua persona, ti viene anche più semplice riconoscere l’altro, ma l’Altro con la “a” maiuscola. Quindi, per me lo sport è stato ed è un tramite veramente incredibile e importantissimo per tutto questo.

In questi ultimi anni, raggiunti dei successi sportivi personali, hai voluto donare agli altri la tua esperienza, la tua competenza e, direi, anche la tua visione dello sport, e non solo dello sport, in particolare affermando un valore, quello che tu chiami il valore della pro-abilità. Di cosa si tratta?

Sono partito dal presupposto che le cose belle si condividono perché se te le tieni per te, rimangono fini a sé stesse. Quando ho scoperto il mio vero potenziale ho incominciato anche a giocare con le parole. La pro-abilità è un termine che ho coniato pensando anzitutto di sostituire quel disabile, quella disabilità che indica esclusione, mancanza, diversità, proponendo perciò una parola che mettesse il focus sulle possibilità che ogni persona ha in base alla sua condizione. Oltre alla parola ho quindi scritto un libro, un manuale che spiega questo tipo di mentalità e spiega questo termine, ma soprattutto ho dato vita all’Academy ProAbile, dove questa idea diventa realtà, perché è uno spazio, un’isola felice dove tutti possono esprimersi a prescindere — anzi, grazie alla condizione che vivono — ed è qualcosa di unico, oggi, ma che spero un domani possa diventare davvero “normale”. Spero che tutte le società sportive, tutte le istituzioni possano adottare questo approccio sia sportivo che alla vita: l’approccio della proabilità.

Tanti giovani, ancor più dopo la pandemia, vivono situazioni di disagio sociale, difficoltà ad affrontare le sfide della vita. Non hanno magari disabilità fisiche però ne hanno altre, che sono invisibili, ma ferite non meno dolorose. Quale messaggio ti senti di condividere con questi ragazzi, anche con la forza della tua esperienza e di quello che sei riuscito a fare e continui a realizzare?

Oggi siamo abituati, soprattutto per il potente bombardamento social e mediatico, a vedere dei modelli, degli esempi che sembrano perfetti se hanno raggiunto il cosiddetto successo. Quindi tutti vogliono ambire a quel risultato. Anche a me oggi viene detto: “Sei un super-eroe, hai raggiunto grandi traguardi, hai superato tante battaglie”. Io però ribadisco e ci tengo a sottolineare che non sono un super-eroe: sono una persona che ha vissuto talmente tante difficoltà, talmente tanti momenti di dolore e talmente tanti fallimenti che oggi ha scoperto che tramite di essi si può arrivare a scoprire le nostre opportunità reali, le nostre possibilità! E quindi, il messaggio è di cogliere, accogliere quelle difficoltà, quelle sfide che la vita ti mette davanti. Quando tu le accogli, in qualche modo entri in quel flusso che prima citavo attraverso lo sport, che ti fa davvero entrare alla scoperta di te stesso, in connessione con te stesso, con gli altri e con tutto quello che ti circonda.

Ricevendo Athletica Vaticana nel gennaio scorso, Papa Francesco ha detto che lo sport è uno strumento di inclusione che rompe le barriere e celebra la diversità. Pensi che atleti come te possano aiutare ad affermare questo principio, in un mondo sportivo — ma non solo sportivo — sempre più centrato sul successo ad ogni costo?

Sì. Penso che possiamo essere degli strumenti. Possiamo essere un tramite visibile. Nel mio caso, per esempio, ho una gamba sola e quindi ad impatto viene visto subito questo dettaglio, per così dire. Quindi, in qualche modo, diventa anche un’esperienza da prendere a modello. Allo stesso tempo, dobbiamo ricordarci che ognuno di noi ha il privilegio di essere vivo, ha il privilegio di potersi esprimere e questo privilegio va in qualche modo sia condiviso sia messo alla prova costantemente. Lo sport, in questo, secondo me è l’attività più importante che ci sia in assoluto, da sempre: attraverso lo sport possiamo sì giocare, sì divertirci ma soprattutto possiamo allenarci davvero a vivere le sfide che la vita ti mette davanti, andando sempre oltre il limite.

Quest’estate sarà ricca di grandi eventi di sport: gli Europei di atletica a Roma, poi gli Europei di calcio in Germania, infine le Olimpiadi e le Paralimpiadi di Parigi. Cosa ti aspetti e cosa speri da questa straordinaria stagione sportiva che sta per prendere il via?

Mi aspetto sicuramente che ci sia — come dice Papa Francesco — un’inclusione vera, concreta; mi aspetto che si superino tutti quegli stereotipi che negli anni ci sono stati. C’è bisogno — secondo me — di un rinnovamento anche di approccio e per questo punto sempre molto sulle parole, sul linguaggio, perché quell’approccio nasce poi dai nostri pensieri. Spero che tutti questi eventi sportivi possano anche avvicinare tante persone che magari ancora sono arpionate a determinati concetti e quindi chiuse dentro casa. Spero che siano uno stimolo, un’ispirazione per tante persone, perché è anche questo il messaggio trasversale che lo sport deve mandare: dare una possibilità a quelle persone che sentono di averla persa.

di Alessandro Gisotti