· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
La crescente espansione del gruppo dei Brics e le sue ricadute sul continente

Una nuova architettura economico-finanziaria
per l’Africa

 Una nuova architettura economico-finanziaria per l’Africa   QUO-105
10 maggio 2024

La progressiva affermazione di un nuovo aggregato geoeconomico, identificato dall’acronimo Brics (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) non può essere sottovalutata guardando ai futuri sviluppi dell’economia mondiale e della geopolitica internazionale. Peraltro, l’ingresso nel gennaio scorso di alcune importanti new entry — Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti — ne è la conferma. E questo trend è in crescente espansione se si considera che ci sono altri 40 Paesi pronti ad aderire, di cui la metà ha già presentato la richiesta ufficiale. Tra questi figurano alcuni importanti player africani: la Nigeria, l’Algeria, la Tunisia, il Kenya e il Senegal.

Non pochi analisti internazionali hanno ritenuto per anni che il cartello dei cosiddetti Paesi emergenti non fosse in grado di contrastare la forza politica del g7 . In effetti, finora è sempre stato l’Occidente a dettare le regole del gioco. Motivo per cui la Banca mondiale (Bm) è da sempre guidata da un presidente statunitense e il Fondo monetario internazionale (Fmi) da un europeo. Ma ora la governance globale sta subendo — è il caso di riconoscerlo senza reticenze — una trasformazione rispetto al tradizionale ordine liberale internazionale dominato dall’Occidente.

Non contano solo i numeri e le percentuali, ma soprattutto l’indirizzo politico impresso dal nuovo corso dei Brics che trova grande risonanza — è importante sottolinearlo — nel Global South. Partiamo comunque dai dati macroeconomici: la popolazione dei Brics-10 rappresenta oggi oltre il 45 per cento di quella mondiale. Il gruppo allargato conta già quasi il 37 per cento del Pil mondiale. Se si calcolasse il Pil con il metodo della parità di potere d’acquisto, (Ppa) esso già supererebbe il g7 . Ma non è tutto: se parliamo in termini di produzione e consumo globale di petrolio, rappresentano il 43 per cento di quello globale, il 36 per cento di gas, il 70 per cento della produzione di acciaio e il 65 per cento del consumo di acciaio, il 44 per cento della produzione di fertilizzanti e il 46 per cento del consumo di fertilizzanti, il 57 per cento della produzione e del consumo alimentare e il 48 per cento della produzione automobilistica. Dal gennaio di quest’anno, con l’ingresso dei nuovi Paesi membri, la popolazione dei Brics è di oltre 3 miliardi e 500 milioni di abitanti, circa il 48 per cento della popolazione mondiale.

Ma a parte cifre e percentuali, ciò che deve necessariamente essere messo in evidenza sono le ripercussioni sul sistema monetario e finanziario planetario. Infatti, a seguito della crisi russo-ucraina, esplosa il 24 febbraio del 2022, abbiamo tutti assistito all’inasprimento rapido della politica monetaria americana (e successivamente europea, ancorché non giapponese) per domare l’inflazione, con l’innalzamento dei tassi d’interesse. Uno scenario che storicamente si era già presentato in occasione di altre crisi a cui è sempre corrisposta la solita sceneggiatura: rafforzamento del dollaro, peggioramento delle condizioni finanziarie globali, rallentamento della domanda aggregata. Sta di fatto che il il crollo dei rendimenti obbligazionari nel mondo ricco ha innescato un processo che era già in atto da tempo, ma che ora si sta sempre più delineando in modo risoluto: l’affrancamento dei Paesi emergenti dagli Stati Uniti e dalle istituzioni come il Fmi e Bm.

L’intento dichiarato da parte dei Brics è quello di affermare l’uso di un paniere di monete rispetto al consueto utilizzo del dollaro, configurando un nuovo sistema che consenta, ad esempio, prestiti in valuta locale evitando i rischi del cambio e delle variazioni dei tassi di interesse statunitensi. Inoltre, i Paesi emergenti intendono avere maggiore possibilità di manovra rispetto alle direttive del Fmi che, quando concede un prestito subordina l’apertura della linea di credito ad una serie di riforme economiche e a volte addirittura politiche il cui avanzamento viene poi periodicamente osservato attraverso una serie di meccanismi di monitoraggio.

I Paesi africani, naturalmente, non stanno alla finestra a guardare. L’Egitto, ad esempio, ha dichiarato recentemente che intende progressivamente abbandonare il dollaro nelle sue attività commerciali e sollecita anche i suoi partner a usare le proprie monete nazionali negli accordi. La Nigeria, dal canto suo, ha l’intenzione di sottrarsi alle imposizioni delle grandi istituzioni del sistema di Bretton Woods (Fmi e Bm) e come il Sud Africa sta orientando la propria bussola verso la New development bank (Ndb), la banca dei Brics, la cui nascita venne annunciata dieci anni fa con una sottoscrizione da parte dei Paesi fondatori (Brasile, Russia, India Cina e Sud Africa) di 10 miliardi di dollari ciascuno di capitale, per un totale di 50 miliardi.

Per inciso, la fondazione della Ndb avvenne in una ricorrenza significativa: esattamente 70 anni dopo gli accordi di Bretton Woods, quegli accordi che nel 1944 diedero vita alle due istituzioni che consentirono il rilancio dell’economia mondiale nel dopoguerra. Proprio quelle con le quali la Ndb si pone oggi in competizione, ovvero la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, diventata poi la Banca mondiale, e il Fondo monetario internazionale nato con il compito di mantenere un sistema di tassi di cambio fissi incentrati sul dollaro statunitense e, all’epoca, sull’oro (Gold exchange standard). In questa prospettiva, la banca dei Brics è vista come il potenziale futuro centro creditizio del Global South e dunque anche dell’Africa. Essa si appresterebbe per esempio a creare obbligazioni in monete locali per l’equivalente di oltre 28 miliardi di dollari. Tuttavia liberarsi dal dollaro e dai vincoli dei mercati internazionali non è affatto semplice per Ndb, anche perché buona parte delle sue emissioni di bond avvengono sui circuiti internazionali egemonizzati dall’Occidente. Ciò non toglie che prima o poi si passi definitivamente da un sistema monopolare ad uno multipolare con l’ingresso nei Brics di economie forti come quella dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. Paolo Raimondi, economista e attento studioso dei Brics, ritiene che, «sebbene alcuni osservatori occidentali parlino di un processo lento di cambiamento, esso è comunque in continua e progressiva crescita».

Guardando poi al futuro — sempre secondo Raimondi — è ormai chiaro che i Paesi emergenti stanno pensando alla creazione di un’unità di conto: «Una moneta non circolante, ma essenziale per regolare i commerci e superare molte difficoltà. Del resto, in Europa conosciamo bene gli effetti positivi dell’Ecu, l’unità di conto che ha favorito l’unione economica e il libero scambio delle merci nel nostro continente».

Una cosa è certa: il peso dei Brics nel sistema economico globale rimane grande, non foss’altro perché il resto del mondo, compresi i Paesi industrializzati del g7 , dipende sempre di più da essi. Basti pensare alle cosiddette catene globali del valore e dunque all’importanza, per il comparto industriale occidentale, delle terre rare o delle commodity più in generale. In questo contesto, i Paesi africani, che hanno dato vita al loro libero mercato continentale (AfCFTA), non possono fare a meno di guardare con interesse e simpatia a una nuova architettura economico-finanziaria globale.

di Giulio Albanese