· Città del Vaticano ·

I 36 atleti del team dei Rifugiati del Cio per le Olimpiadi di Parigi 2024
Provenienti da 11 diversi Paesi rappresenteranno oltre 100 milioni di sfollati

La squadra di tutti

 La squadra di tutti  QUO-100
03 maggio 2024

Ci sono due segni di pace che le Olimpiadi e le Paralimpiadi propongono al mondo. Il primo è la tregua olimpica, stabilita dalle Nazioni Unite dal 19 luglio al 15 settembre: una settimana prima dell’inizio dei Giochi di Parigi fino a una settimana dopo la chiusura delle Paralimpiadi

Papa Francesco ha sostenuto il valore della tregua olimpica — rivolgendosi ad Athletica Vaticana, lo scorso 13 gennaio — auspicando «che, nel momento storico particolarmente buio che stiamo vivendo, lo sport possa gettare ponti, abbattere barriere, favorire relazioni di pace». Thomas Bach, presidente del Comitato olimpico internazionale, ha subito rilanciato le parole del Papa nella prospettiva della «missione di pace e di solidarietà del movimento olimpico».

Il secondo segno di pace è la partecipazione ai Giochi di 36 atleti rifugiati, nel Team costituito proprio dal Cio. I nomi sono stati annunciati ieri dal presidente Bach insieme a due protagonisti di storie di riscatto attraverso lo sport: la ciclista afghana Masomah Ali Zada, capo missione del Team dei rifugiati a Parigi, e il mezzofondista sud sudanese Yiech Pur Biel che dal “buco nero” del campo profughi — dove era stato scaraventato dalla guerra quando aveva 10 anni — è arrivato a fare parte del Cio.

«Incoraggio tutto il mondo a fare il tifo per voi» ha detto Bach agli atleti del Team: sostenuti dall’Unhcr, provengono da 11 Paesi, sono stati accolti da 15 Comitato olimpici nazionali e a Parigi saranno in gara in 12 discipline sportive. È la terza partecipazione olimpica dei rifugiati: a Rio de Janeiro erano in 10 e a Tokyo in 29.

I due segni di pacesono contenuti nella “quarta parola” — Communiter, insieme — aggiunta tre anni fa al motto olimpico Citius, altius, fortius.

Communiter, insieme, con la stessa dignità: atleti con programmi di allenamento di alto livello e atleti che arrivano da campi profughi e da esperienze di violenze. È una prospettiva di speranza non solo sportiva.

di Giampaolo Mattei
Presidente di Athletica Vaticana


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