Hic sunt leones
Addis Abeba
L’accesso al mare ha sempre avuto una rilevanza geostrategica nella storia dell’umanità, soprattutto quando si parla di aree geografiche come il Mar Rosso o il Golfo di Aden, per non parlare del Bāb el-Mandeb, lo Stretto che congiunge i due mari. Infatti, il controllo di questi bracci d’acqua garantisce quello dei traffici mercantili, introiti economici, difesa militare e sovranità territoriale.
D’altronde, in termini generali, sul mare si sviluppa gran parte delle attività produttive proprie dell’uomo: dall’attività ittica allo sfruttamento delle risorse energetiche off shore, per non parlare di qualsivoglia commercio. Da questo punto di vista, l’Etiopia è sempre più alla ricerca di uno sbocco sull’oceano Indiano da quando, all’inizio degli anni Novanta, l’Eritrea è diventata indipendente.
Nel 2018, a seguito del disgelo, nelle relazioni politico-diplomatiche, tra il primo ministro etiope Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afewerki, era stata ventilata l’ipotesi che Addis Abeba potesse utilizzare i porti eritrei di Assab e Massaua. Ma ciò non è avvenuto a seguito di una serie di eventi che si sono succeduti: prima la crisi armata del Tigray, esplosa nel novembre del 2020 tra il governo federale etiope e la leadership politica e militare del Tigray People’s Liberation Front (Tplf), poi l’aperta contrarietà del governo di Asmara nei confronti degli accordi di pace di Pretoria del novembre 2022. Accordi che hanno posto fine a due anni di conflitto, una vera e propria guerra civile che ha causato 600.000 vittime e oltre 2 milioni di sfollati, minando dalle fondamenta la stabilità del secondo Paese più popoloso del continente africano. Peraltro la situazione è ancora molto fluida.
Come hanno osservato diversi analisti, tra cui il professor Federico Donelli dell’Università di Trieste: «L’Eritrean Defence Forces (Edf), che in questi anni ha fornito addestramento e supporto a diverse milizie regionali, soprattutto Amhara e Afar, gode dei mezzi e della posizione strategica per riprendere le ostilità indipendentemente dalle decisioni etiopi».
Sta di fatto che, per il momento, l’unica via d’accesso al mare per l’Etiopia è il porto di Gibuti il cui utilizzo risulta molto oneroso per il governo etiope: circa due miliardi di dollari all’anno. Se a ciò aggiungiamo il fatto che il passaggio dei convogli merci diretti a e provenienti da Gibuti è stato ripetutamente messo a repentaglio da gruppi armati nella regione degli Afar (Dancalia) su cui transita la linea ferroviaria che collega i due Paesi, è evidente che il problema rimane aperto, considerando l’alto tasso di armi in circolazione in Etiopia.
Motivo per cui, l’annuncio della firma, nel gennaio scorso, di un Memorandum of Understanding (MoU), vale a dire un protocollo d’intesa tra Etiopia e Somaliland, non ha sorpreso più di tanto gli osservatori, anche se poi la notizia ha scosso non poche cancellerie. Esso prevede la possibilità per le merci etiopi di accedere al Mar Rosso sfruttando il porto di Berbera che si affaccia sul Golfo di Aden o comunque un’area nel distretto di Lughaya nella regione Awdal, per un utilizzo militare e commerciale oltre alla concessione ad Addis Abeba di una zona costiera lunga dai 5 ai 10 chilometri.
Sebbene tuttora non si conoscano i dettagli del MoU, è evidente che stiamo parlando di un’area geografica dove s’intrecciano sfide globali che vanno dagli interessi economici legati ai traffici marittimi al contrasto della pirateria. Da questo punto di vista, l’attuale classe dirigente etiope non intende assolutamente essere tagliata fuori, in considerazione anche del fatto che dal 1° gennaio scorso l’Etiopia è entrata a far parte del cartello dei Brics.
Se è vero che da diverso tempo si vociferava negli ambienti diplomatici di non meglio precisate trattative tra Etiopia e Somaliland, i termini dell’accordo hanno generato reazioni a livello regionale, ma anche ben oltre i confini del Corno d’Africa. Già lo scorso ottobre, il primo ministro etiope Abiy Ahmed aveva definito l’accesso al mare una questione vitale per il suo Paese. In effetti, l’interesse di Addis Abeba verso il Somaliland — che si estende sul territorio dell’ex Somalia Britannica — non è di oggi. Nel 2018 Etiopia e Somaliland avevano firmato un accordo che avrebbe dovuto portare Addis Abeba ad acquisire una quota del 19 per cento del porto di Berbera, mentre la compagnia di logistica DP World degli Emirati Arabi Uniti aveva già in tasca una quota del 51 per cento; ma nel 2022 le autorità del Somaliland, con rincrescimento, furono costrette a dichiarare che l’intesa con l’Etiopia non era giunta a buon fine in quanto il suo esecutivo non era riuscito a soddisfare «le condizioni necessarie per acquisire la partecipazione prima della scadenza».
Il governo di Mogadiscio ha duramente criticato la firma del MoU considerandola un aperto affronto alla sua sovranità e integrità territoriale. L’esecutivo somalo ha ricevuto il sostegno immediato degli organismi regionali (Autorità intergovernativa per lo sviluppo-Igad) e continentali (Unione africana-Ua) in nome del principio dell’integrità territoriale. Nel frattempo, in occasione del recente vertice dei ministri degli Esteri del g7 , tenutosi a Capri tra il 17 e il 19 aprile scorsi, gli Stati membri hanno espresso preoccupazione per le stesse ragioni. In particolare hanno incoraggiato sia l’Etiopia che la Somalia «a mantenere aperti tutti i canali di dialogo per prevenire un’ulteriore escalation, lavorando con i partner regionali, nel quadro dell’Ua e attraverso contatti bilaterali, in conformità con il diritto internazionale e i principi di sovranità e l’integrità territoriale come sancito dalla Carta delle Nazioni Unite».
La durata prevista della partnership tra Etiopia e Somaliland dovrebbe essere di cinquant’anni e pare certo contempli, da parte di Addis Abeba, la cessione, in cambio delle concessioni portuali, di una quota azionaria delle sue principali aziende pubbliche come Ethiopian Airlines o Ethio Telecom. Ma non è tutto qui.
Nonostante Addis Abeba abbia smentito ogni intenzione di procedere al riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland, la firma del protocollo d’intesa viene considerata dalle autorità del Somaliland come una sorta di riconoscimento de jure, da parte dell’Etiopia, della propria indipendenza da Mogadiscio. Ed è proprio questa la ragione per cui il presidente somalo, Hassan Sheikh Mohamud, non crede affatto che il MoU abbia, alla prova dei fatti, una natura prettamente commerciale. Mohamud, in occasione dell’Assemblea generale dell’Ua che si è svolta proprio ad Addis Abeba nel febbraio scorso, ha accusato senza mezzi termini il governo etiope di voler annettere il Somaliland al proprio territorio. Anche la Lega Araba e l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica hanno rivolto un appello al governo di Addis Abeba affinché desista dal voler implementare l’intesa con il Somaliland.
Mentre scriviamo è difficile prevedere gli sviluppi del futuro scenario nel contesto dell’intero scacchiere del Corno d’Africa. Ad esempio, è sempre più chiaro che il gruppo terroristico somalo al-Shabaab non ha gradito la firma del MoU ritenendo l’intesa tra Addis Abeba e Hargeisa una minaccia all’integrità territoriale della Somalia, parte integrante della sua agenda politica. Come se non bastasse, si sta riacutizzando la disputa tra il Somaliland e il Puntland, Stato semiautonomo dalla Somalia, riguardo al controllo di tre regioni: Sool, Sanaag e Cayn. Di fronte alla complessità dei problemi che interessano il Corno d’Africa è comunque auspicabile che vengano trovate «soluzioni africane a problemi africani», anche se non sarà facile.
di Giulio Albanese