Mi chiamo Ramisa e sono nata in un piccolo villaggio vicino Dacca, in Bangladesh. Non ricordo molto della mia terra, sono anni che con il mio Baba e Ma viviamo in un quartiere di Roma.
Quando sono nata, Baba partì e ci lasciò. Ci chiamava ogni sera e io aspettavo di vederlo sullo schermo del telefono. Sono stata fortunata perché Baba ha voluto che frequentassi la scuola, almeno quella dell’obbligo, dai 6 agli 11 anni. Non tutte le bimbe andavano e, come le mamme, spesso non sapevano né leggere né scrivere. Conoscevo storie di Baba che andavano via e lasciavano le famiglie senza cibo né casa.
Dopo anni che mandava soldi, Baba ci ha detto che potevamo raggiungerlo appena avessi finito la scuola a gennaio, così da non perdere l’anno e ottenere il diploma di quinta.
Quando siamo arrivate in Italia, non sapevo come si chiamasse il quartiere, un nome risultò troppo lungo e difficile da pronunciare. Avevo memorizzato solo i suoni della grande città che ci aveva accolto: Roma.
Non è stato facile cominciare a frequentare la scuola. Ci sono voluti mesi, anche perché non sapevamo che la scuola in Italia iniziasse a settembre.
Baba mi aveva detto che qui, in Italia, la scuola sarebbe stata gratuita. Non avremmo dovuto pagare per continuare. Invece, dopo mesi, ancora aspettavo. Stavo con Ma a casa, mi annoiavo molto, le giornate erano lunghissime. Non avevo amici con cui giocare. Pensavo che tutto il mio sforzo per riuscire a prendere la licenza non fosse servito a nulla. Avevo con me un solo libro di arte, regalo di una maestra per il mio grande impegno. Adesso le immagini non si vedono quasi più per quanto le ho consumate.
Un giorno Baba è tornato a casa contento perché un amico al lavoro gli aveva detto che ci sono delle donne italiane vicino alla scuola che avrebbero potuto aiutarci. Mi ricordo molto bene quella mattina in cui entrammo da un ingresso secondario nella sede dell’associazione Altramente. C’era una grande aula con un grande tavolo, vicino all’ingresso, e un divano colorato. Sul fondo della stanza, c’erano tanti banchi e una lavagna. Attorno ad uno di quei banchi, c’erano delle donne, anche loro bengalesi, che imparavano l’italiano. A Ma questa cosa è piaciuta molto.
La signora che ci ha accolte mi guardava e mi sorrideva, e ha cominciato a parlare con Baba. Io non capivo, suoni troppo strani da decifrare. Baba però, era molto contento e, all’uscita, ci ha detto che avrebbero parlato con la scuola.
Dopo due giorni, Baba e Ma mi hanno accompagnato a scuola e io finalmente sono entrata in classe. Era una quarta elementare, a settembre mi sarei dovuta iscrivere di nuovo alla quinta, ma non mi importava. Volevo solo uscire di casa e conoscere altri bambini.
Quando sono entrata in classe sono rimasta colpita: erano tutti ragazzi che venivano dal mio paese. Ecco dov’erano finiti.
In quell’aula le finestre dovevano restare sempre aperte, le maestre non permettevano che venissero mai chiuse sia in estate che in inverno. Le lezioni erano strane, suoni che non capivo, storie così lontane dal mio mondo. È stato, però, nei pomeriggi dopo la scuola, trascorsi con l’Associazione che ho cominciato ad imparare a leggere e a scrivere l’italiano e soprattutto a giocare e conoscere nuovi amici che provenivano da altri paesi.
Con Ma ci divertivamo a ripetere le nuove parole. Amo leggere i libri che all’associazione ci prestano e ora aiuto anche io quando non devo studiare per i compiti.
La terza media è difficile. Se ripenso alla mia storia e a quella dei miei amici mi viene da dire che: «ogni bambino deve avere una vita normale, non sempre come un orfano. Tutti devono avere amici. Stare da soli è una brutta cosa. Tutti hanno un sogno da scrivere».
(La storia di Ramisa è raccontata da Giuditta Bonsangue ed è liberamente ispirata ai racconti dei volontari dell’Associazione AltraMente di Torpignattara, a Roma)