· Città del Vaticano ·

I volti della povertà in carcere - 10

Francesco

 Francesco  ODS-021
04 maggio 2024

Un colloquio durato oltre tre ore nel giardino del Centro clinico. Francesco parla poco della sua malattia e della detenzione, perché l’unica vera malattia è il mal d’amore che non ha mai potuto esprimere per i limiti imposti dalla famiglia e dalla società ai tempi della gioventù. Non c’è dubbio che sia afflitto da un patimento, perché glielo si legge in volto. È pallido ed emaciato, corroso dalla leucemia e da questo agognato amore. La direzione del carcere di San Vittore lascia che l’epilogo del nostro percorso sia dettato dalla storia di Francesco, nella tragicità della sua sofferenza fisica e psicologica e lasciando a lui e a noi tutto lo spazio necessario per dare voce alla sua anima.

«Mio caro fratello, anima mia, vorrei poter essere lì,
non desidero altro,
allora quando leggerai questo libro sarà come
se mi stessi ascoltando,
carta e inchiostro come pelle e anima.
Tuo, Francesco».

Seduti per ore sotto un pergolato, al riparo dal calore del pomeriggio settembrino, inizia il suo racconto, come fosse un testamento o la sceneggiatura di un romanzo. Lo ascoltiamo, ma mai come in questo incontro non avrò bisogno di fare molte domande, piuttosto lascerò che sia lui a tenere il filo dei ricordi. «Sono cresciuto a Cologno Monzese, da genitori emigrati, fino ai dieci anni in un quartiere allora periferico, dove da subito era necessario fare attenzione a tossici, spaccio e siringhe sparse qua e là. Ero un bambino con una forte vena artistica (…). Con l’inizio delle scuole medie ho iniziato a realizzare di avere un’identità, per usare un termine politically correct, di genere e non corrispondente a canoni prestabiliti. Da subito ho avuto relazioni per comprendere la mia identità… di nascosto dai miei genitori che non avrebbero capito. Non facevo uso di sostanze, ma il giro di conoscenze e di amicizie aveva già avviato una lenta ed inesorabile azione di devianza su di me. Al primo liceo ho cominciato a fare uso di anfetamine e psicofarmaci. In secondo liceo ho conosciuto un ragazzo che non poteva amarmi… Ho iniziato a vendicchiare il fumo e sono andato incontro a tante situazioni di pericolo, poi ho iniziato a fare uso di eroina e a darmi agli scippi. Ci ha provato in mille modi, mio padre, a tirarmi fuori da quella situazione e alla fine mi ha ripudiato. Nell’incoscienza dei 17 anni, in una condizione di precarietà assoluta, ho scoperto le piazze di spaccio… Drogarmi era diventato un lavoro… Ho trovato nella droga il rimedio per non vivere quella parte di me che il resto del mondo non avrebbe accettato, quindi, piuttosto che subire l’onta di un’esclusione per quel motivo, ho preferito subire l’onta del disgusto per essere diventato tossicodipendente, ma per gli altri era molto più semplice accettare quello, che accettare la mia vera natura».

«I primi arresti del 2001 e del 2003 sono stati per furto d’auto, poi ho iniziato a dedicarmi alle rapine. Mi hanno arrestato per questo a gennaio del 2004 e via via fino al 2010. La costante è sempre stata la delusione d’amore, l’abbandono e il tradimento da parte dell’altro. La mancanza di aver vissuto le esperienze dell’adolescenza, di aver avuto…». Lo interrompo dopo la prima ora di racconto e completo la sua frase: «...di aver avuto la possibilità di essere te stesso e di poter esprimere quello che sentivi, di amare chi avresti voluto».

«Nel 2021, mi hanno diagnosticano una leucemia mieloide acuta, ma la cosa peggiore che mi è capitata in questi ultimi 4 anni è aver conosciuto qui dentro una persona a cui voglio molto bene, a cui ho dedicato tutto mentre era qui e ha scoperto l’amore… adesso è stato trasferito in un altro carcere».

«Ti commuove solamente l’amore!» gli dico mentre i suoi occhi si riempiono di lacrime. «Soffri perché non sei riuscito ad amare, mi sbaglio? Dai tuoi racconti, il dolore, la sofferenza, non sono legati alla malattia, ai ventun anni di detenzione, alle pene da scontare, ma all’amore che non sei riuscito a provare. Non ti sei mai chiesto, dopo i primi 11 anni di reclusione, se valesse la pena continuare a vivere così?».

«Credo che alla base di tutto ci sia una coazione a ripetere distruttiva, perché non è che io non abbia cercato di costruire relazioni fuori. È che probabilmente io ho una sete e una fame diversa da quella di una persona che ha vissuto una vita libera. Il mio modo di vivere l’amore è molto più totalitario di quanto non lo sia per una persona che magari ha avuto tante esperienze. La mia vita l’ho trascorsa qua e non ho mai potuto provare un amore completo».

«È come se la prigione l’avessi cercata, come se il tuo corpo fosse inevitabilmente imprigionato nell’unico dolore a cui dai voce. Nulla per te e per la tua malattia, ma solo per amore. Per cui se io ti chiedessi “In cosa speri?”, la tua risposta quale sarebbe?».

«Spero di incontrarlo un giorno e consegnargli il testamento d’amore che ancora non ha ricevuto, di amarlo nella libertà che non ho mai vissuto». (Rossana Ruggiero)

di Rossana Ruggiero