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Abbiamo molto da imparare

 Abbiamo  molto  da imparare  ODS-021
04 maggio 2024

Fa sorridere e riflettere il fatto che, su Instagram e TikTok, stiano avendo sempre più successo pagine in cui si condividono frammenti di diari dei bambini oppure video d’epoca in cui, intervistati dalla televisione in bianco e nero, i bambini raccontano la loro vita e i semplici sogni che avevano.

Si sorride perché la spontaneità dei più piccoli è sempre disarmante. Allo stesso tempo si riflette sul perché la società che apprezza certi contenuti è la stessa che, di bambini, non ne fa più. Un paradosso?

Forse no, se si pensa a tutti quei problemi economici e sociali che, dai congedi parentali all’indennità di maternità fino ai bonus, dissuadono dall’idea di metter su famiglia. O forse sì, dato che, nonostante tutto, oggi un bambino può crescere in circostanze nettamente migliori rispetto al passato: l’istruzione obbligatoria, l’accesso alla sanità, il progresso economico, gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, i continui sforzi per la parità di genere… ce ne avremmo di cose da insegnare ai più piccoli. Eppure, pare proprio che non abbiamo alcuna intenzione di farlo.

Ecco perché diventa necessario calarsi nel contesto antropologico che, più di ogni altra cosa, sembra essere il motore di tutto: non facciamo più bambini perché non abbiamo idea di quale sia il nostro ruolo in un mondo in costante cambiamento e, quindi, figuriamoci se vogliamo sacrificare tempo, spazio e denaro per educare qualcuno a quella complessità che, giorno dopo giorno, appare inspiegabile persino a noi.

Perché in una società abituata a ritmi tanto frenetici, in cui ognuno di noi ha quegli impegni improrogabili e quelle abitudini irrinunciabili, in cui siamo devoti all’individualismo, fedeli al consumismo, incapaci di fermarci a riflettere e annebbiati dall’idea di vivere in un eterno oggi, proprio in quella società dove per testimoniare di essere vivi bisogna avere tutto sotto controllo, sembra che abbiamo perso la capacità di donarci gratuitamente all’altro. E, se si ama solo per aspettarsi qualcosa in cambio, allora anche i figli vengono declassati a poco più di oggetti, utili solo per riempire i vuoti o proiettare su di loro i sogni non realizzati.

Risultato: secondo una ricerca recentemente pubblicata su The Lancet,
i tassi di fertilità in Europa sono inferiori alla media globale, in un continente «Vecchio» per definizione questo valore è già basso
(1,53 figli per donna) e il calo più evidente riguarda soprattutto l’Italia e la Spagna. La situazione non è così diversa in Paesi tecnologicamente avanzati e vicini al modello occidentale seppur lontani geograficamente: la Corea del Sud ha il tasso
di fertilità più basso al mondo (0,72)
e in Giappone, Paese con l’età media più alta al mondo (48 anni), nel 2023
sono nati 758.631 bambini, il minimo storico.

Sulla scia della prima Giornata mondiale dei Bambini istituita da Papa Francesco per i prossimi 25 e 26 maggio, L’Osservatore di Strada intende quindi proporre un modo alternativo per guardare alla crisi demografica: se non vogliamo comunicare nulla ai nostri bambini, che siano loro, tutti, senza alcuna differenza, a comunicarci qualcosa. A una sola condizione, ben evidenziata dal Papa nel suo messaggio: «Ascoltateli, anzi ascoltiamoli».

E facciamolo soprattutto con i bambini che sembrano aver perso la capacità di sorridere perché vivono drammi familiari fatti di separazione, litigi e violenze, oppure perché fuggono dai tanti teatri di guerra. Riprendendo le parole del Papa, «nella loro sofferenza ci parlano della realtà, con gli occhi purificati dalle lacrime e con quel desiderio tenace di bene che nasce nel cuore di chi ha veramente visto quanto è brutto il male».

Non facciamo quindi in modo che siano «gli altri» a occuparsi di loro. Non lasciamoli davanti allo smartphone o alla PlayStation pur di farli distrarre, non li abbandoniamo dallo psicologo come se fossero adulti o non scarichiamo su di loro le nostre colpe. Insomma, non costringiamoli a fare una vita da adulti, piena di impegni e ossessionata da obiettivi da raggiungere. Se li ascoltassimo capiremmo che loro chiedono di fare un solo «mestiere»: quello del bambino.

Ecco perché, in questo numero, abbiamo raccontato le storie di Salem, ferito a Gaza, e di Monica, della Scuola della pace della comunità
di Sant’Egidio, così come quelle di Moustaba, rifugiato afghano, e di Antônio, indigeno dell’Amazzonia: per ricordare quanto sia importante essere agili come bambini nell’affrontare le difficoltà, per impegnarsi davvero a costruire una dimensione comunitaria basata su scuola e famiglia, per recuperare quello stupore, infantile e innocente, che troppo spesso abbiamo sostituito con l’indifferenza. Per capire che dai bambini possiamo e dobbiamo imparare qualcosa.

Basta ascoltarli. Oppure, basta dare loro una penna e lasciarli scrivere. L’ultima pagina dell’edizione mensile, vuota, da riempire con un pensiero scritto dai più piccoli, serve proprio a questo. (Guglielmo Gallone)

di Guglielmo Gallone