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DONNE CHIESA MONDO

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Migranti, donne salvate e donne che salvano

Vi ricordate di Josepha?

 Vi ricordate  di Josepha?  DCM-005
04 maggio 2024

«Ho cominciato a pregare, invocando la Stella del Mare. Le ho detto: “Mamma, tu sei mia madre, sei la Stella del Mare, e qui siamo solo io e te. Fa un miracolo, e vieni qui a trovarmi”». Josepha compose questa preghiera mentre non riusciva più a tenere gli occhi fuori dall’abisso scuro e salato.

Non dimenticherò mai il giorno in cui mi fece arrivare quel foglio scritto a mano. Lo avevano scritto le volontarie di Open Arms a cui Josepha aveva dettato l’orazione proferita prima di addormentarsi aggrappata a una tavola, vicino al cadavere di un neonato. Non era il suo bambino, ma era morto come tutti quelli che stavano sul barcone, tranne lei. Sul corpo di Josefa si è giocato il peggio della xenofobia. Perché alle donne che migrano è riservato un dippiù di calunnie e disprezzo. L’avevano chiamata “la naufraga con lo smalto”. Anzi, “un’attrice, perché lo smalto è intatto dopo 48 ore in acqua”. Perciò schernita: “Scappa dalla guerra ma si è pitturata le unghie”. Oltraggiata: “Le mani non hanno l’aspetto spugnoso tipico di chi resta in acqua per ore”. Offesa: “Non c’è stato alcun naufragio”. Infine dimenticata, dopo che il veleno delle false notizie aveva fatto il suo effetto, giustificando i patti indicibili con i criminali del Mediterraneo, pur di non avere altre “Josepha” tra i piedi. Era il 16 luglio del 2018 quando venne tratta in salvo quasi per caso al largo delle coste libiche.

Trasferita in Spagna, dopo mesi di quasi mutismo selettivo, ci aveva inviato un messaggio vocale. Una cantilena dolce e malinconica. «Sto meglio. Ringrazio tutti. Oggi comincio a muovere i primi passi». E poi quegli appunti, che andrebbero scolpiti all’ingresso di ogni porto. Mentre ad uno ad uno tutti gli altri sparivano nell’oscurità del mare «ho cominciato a pregare, ho invocato la Vergine del Mare. Le ho detto: “Mamma, tu sei mia madre, sei la Stella del Mare, e qui siamo solo io e te. Fa un miracolo, e vieni qui a trovarmi”». Più di un giorno e una notte alla deriva. Josepha era scampata agli aguzzini libici, ai trafficanti del Sahara, prima ancora era sfuggita ai suoi parenti in Camerun. Lei, sposata, non riusciva ad avere figli. Un’infamia. Pagata con umiliazioni, botte, insulti. Josepha pregava, mentre cercava un’altra possibilità. Pregava quando di nascosto ha seminato i secondini del suo stesso sangue, che la nascondevano alla vergogna del villaggio.

Senza più una famiglia, senza gli affetti che l’avevano illusa, a Josepha nel calare di un cielo che non faceva più distinguere gli abissi del cuore da quelli liquidi e salmastri, ha guardato in alto. «A Gesù ho detto: “Padre, tu sei mio padre. Io so che tu sei qui e che per te niente è impossibile. Non lasciarmi qui. Io non ho paura”. Dunque, ho cominciato a cantare una preghiera. Quando ho finito la canzone, sono caduta nel sonno, fino al momento in cui mi sono ritrovata qui, su questa barca. Qui sono con persone dal cuore grande. Si stanno prendendo cura di me. In tutta la mia vita, prima di adesso, non avevo mai incontrato persone come queste».

In quale anfratto dell’anima avrà trovato quella forza. Perché a pregare, pregano tutti. Ma poi chi riesce a dire, all’ultimo centimetro dalla morte: «Io non ho paura». E non ne ha avuta davvero se poi: «Ho cominciato a cantare». Per afferrarla alla vita, Marc Gasol, campione iberico esportato nell’Nba Usa e salito a bordo della Open Arms, quasi si ruppe una mano rischiando la carriera.

In anni di viaggi e reportage molti volti e molte parole restano addosso. Ma di alcune donne migranti resta solo una voce. Come quella delle cinque minorenni somale prigioniere in Libia. Giugno del 2021. Riuscirono a farci arrivare la loro disperata richiesta d’aiuto con uno stratagemma. La loro età era nota alla polizia libica. Ma non è era certo l’essere poco più che bambine a metterle al riparo dagli stupri dei guardiani foraggiati, equipaggiati e addestrati dalla civile Europa. Due ragazzine, dopo l’ennesima sessione di abusi ad opera degli agenti libici, avevano provato a togliersi la vita. Entrambe sono state poi ricoverate in ospedale a Tripoli e visitate da personale di Medici senza frontiere. Dopo le cure, la soldataglia le ha gettate di nuovo in cella. Per continuare come prima.

«Anche se non è la prima volta che subisco aggressioni sessuali, queste sono le più dolorose, perché sono commesse dalle persone che dovrebbero proteggerci», ha raccontato una di loro. Nessuna alternativa: «Devi dargli qualcosa in cambio per poter andare in bagno, o per chiamare la famiglia, o per evitare di essere picchiata». Gli assalti sessuali possono avvenire in qualsiasi momento della giornata: «Succede ogni giorno. Se resisti, vieni picchiata e privata di tutto». Un’altra ragazza ha riferito di aver iniziato a subire molestie sessuali pochi giorni dopo essere stata condotta nel centro di detenzione. Il brutale copione non cambia. Quando la somala ha chiesto a una guardia di lasciarla chiamare i genitori, il militare le ha dato un telefono e l'ha fatta uscire dalla cella. Dopo che la ragazza riattaccato, lui l’ha afferrata. Mesi dopo sono state rilasciate ed hanno potuto ottenere protezione internazionale. Ma gli psichiatri che le seguono dicono che le loro ferite non guariranno mai.

Donne salvate e donne che salvano. Era il 7 marzo 2016. Le autorità europee dichiararono ufficialmente chiusa la rotta balcanica dei profughi. Da quel giorno non è trascorsa una sola sera senza che dalla strada ferrata non arrivasse a Veles, 40 km da Skopje, la consueta marcia di migranti che dalla Grecia risale la dorsale che si dirige verso i confini dell’Unione europea.

Lence Zdravkin se ne accorse per prima una sera del 2013. Lei che vive a ridosso della ferrovia che percorre la Macedonia del Nord fino alla Serbia, capì che la più grande crisi migratoria della nostra epoca non si sarebbe risolta né con il filo spinato né con i carri armati schierati ai confini.

La gente del posto all’inizio non la prese bene. «Ma tutti insieme abbiamo dimostrato che esiste un piccolo Paese con un cuore grande, una terra di solidarietà. Non abbiamo molto, ma il poco che abbiamo possiamo condividerlo con il migrante e il rifugiato». È così che a Veles hanno visto moltiplicare i pani. Il fornaio, che all’inizio portava nell’improvvisato campo di transito le pagnotte avanzate, ha finito per impastarne molte di più di quante non ne metteva ogni giorno sul banco del mercato. Per non dire dell’ortolano, che una grossa mela non l’ha mai fatta mancare a nessuno.

Un’intera comunità diventata ospedale da campo. «Noi qui ci siamo detti una cosa semplice: nessuno deve passare da Veles e restare affamato e nudo, ammalato e senza cure. Nessuno quando finalmente dovrà ricordarsi di noi come di gente che si è voltata dall’altra parte». E così è stato. «Il fatto che il papa provenga da una famiglia di cinque figli e suo padre sia stato un immigrato italiano, credo che contribuirà al suo messaggio per noi e per denunciare ancora il Golgota dei rifugiati che senza colpa alcuna devono abbandonare la propria casa».

di Nello Scavo

Negli occhi di un reporter

Nello Scavo è inviato speciale e corrispondente di guerra di Avvenire, quotidiano italiano di ispirazione cattolica. Ha indagato sulla criminalità organizzata e il terrorismo globale,  ha firmato reportage dalle zone calde del mondo come la ex-Jugoslavia, la Cambogia e il Sudest asiatico, i paesi dell’ex Urss, l'America Latina, le frontiere più ostili in Turchia, Siria, il Corno d'Africa e il Maghreb. Nel 2016, per oltre un anno ha raccontato la rotta dei Balcani attraverso la quale i migranti arrivano in Europa. Nel settembre 2017 è riuscito a introdursi in una prigione clandestina degli scafisti libici, rivelando in presa diretta quali siano le condizioni dei migranti intrappolati.