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(s)Punti di vista
Da questa “grande piazza” delle genti può nascere un futuro costruito sull’ascolto e sul dialogo

Il Mare Nostro, una storia
che dobbiamo ricominciare
a scrivere

 Il Mare Nostro, una storia che dobbiamo ricominciare a scrivere  QUO-093
24 aprile 2024

Pubblichiamo di seguito l’intervento tenuto dal direttore de “L’Osservatore Romano” in occasione della seconda edizione del Festival Euromediterraneo dell’economia, che si è tenuta a Napoli dal 18 al 20 aprile, presso il centro congressi dell’Università degli Studi Federico ii con “l’obiettivo di rilanciare ancora una volta la centralità del Mediterraneo per poter ritrovare la via della pace e dello sviluppo sostenibile”.

Fratello mare, questo il nome che ho dato al file del mio testo per questo incontro al Feuromed sul Mediterraneo. È evidente l’eco francescana, nel duplice senso di san Francesco d’Assisi e di Papa Francesco. Il mare fratello come il sole e la luna, il Mediterraneo come mare dei Fratelli Tutti. È un’espressione questa da usare con cautela, perché nella Bibbia sia la fratellanza che il mare sono fenomeni raccontati nella loro ambiguità. I fratelli, lo sappiamo fin dall’inizio, quando il maggiore, Caino, uccide il minore, Abele, e così via.. la Bibbia non fa sconti, racconta la verità dell’uomo senza edulcorare ma tenendo insieme tutte le luci e tutte le ombre. Così come il mare, simbolo più minaccioso che luminoso, al punto che nella visione finale dell’Apocalisse, quando appaiono «un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più» (Ap 21,1). Forse perché, non sono un esegeta, il mare rappresenta la nostra inquietudine, destinata a finire quando saremo alla presenza, faccia a faccia, dell’Altissimo. Ma fino ad allora siamo qui, per dirla con i versi del poeta messinese Bartolo Cattafi: «Siamo ora costretti al concreto/a una crosta di terra» e finché saremo su questa terra saremo inquieti, agitati come il mare. Questo mare meraviglioso che sta “in mezzo alle terre” e ci unisce tutti insieme, uomini e popoli di tre continenti. Il Mediterraneo ci unisce, e ci divide. Come persone sedute attorno ad una stessa tavola che ci divide ma ci unisce, ci separa e al tempo stesso ci tiene vicini, uniti, tutti insieme legati ad un destino comune. Facciamo un salto transoceanico e chiediamo consiglio ad un altro poeta, di Buenos Aires, J.L.Borges, che ci ricorda nel suo racconto “apocrifo” Il Vangelo secondo Marco che «ci sono due storie che gli uomini non si stancheranno mai di ascoltare: quella di un vascello sperduto che cerca nei mari mediterranei un’isola amata, e quella di un dio che si fa crocifiggere sul Golgota». Ulisse e Cristo, le due grandi “matrici” di ogni narrazione. Atene e Gerusalemme, le radici dell’Occidente, il “sale” di questo grande lago in mezzo alle antiche terre.

Sul Mediterraneo e il suo destino ha detto parole nette e precise, come al suo solito, Papa Francesco, proprio qui a Napoli, nell’incipit del discorso del 21 giugno 2019 tenuto alla facoltà di teologia dei gesuiti, ponendo la questione centrale:  «Il Mediterraneo è da sempre luogo di transiti, di scambi, e talvolta anche di conflitti. Ne conosciamo tanti. Questo luogo oggi ci pone una serie di questioni, spesso drammatiche. Esse si possono tradurre in alcune domande che ci siamo posti nell’incontro interreligioso di Abu Dhabi: come custodirci a vicenda nell’unica famiglia umana? Come alimentare una convivenza tollerante e pacifica che si traduca in fraternità autentica? Come far prevalere nelle nostre comunità l’accoglienza dell’altro e di chi è diverso da noi perché appartiene a una tradizione religiosa e culturale diversa dalla nostra? Come le religioni possono essere vie di fratellanza anziché muri di separazione?»

Per provare a rispondere, per fare tutto questo lavoro che c’è da fare, bisogna tornare un po’ indietro nel tempo e ripartire da un sogno, il sogno di uomini come Giorgio La Pira che vedeva collaborare Paesi della riva sud — Libano, Egitto, Siria… — e Paesi della riva nord — Francia, Italia, Spagna…—, tutte nazioni che hanno una storia ricca e comune, che tante volte nella storia si è intersecata. Le religioni e il pensiero sono da riscoprire come un tesoro per un’umanità che è in crisi di senso. Il sindaco santo parlava di diritto ad Atene, a Gerusalemme, a Firenze…e scopriva che tutte le grandi capitali del Mediterraneo avevano una ricchezza comune straordinaria, che abbiamo perso perché abbiamo smarrito il senso della storia. Dobbiamo guardare al Mediterraneo non per vivere nell’illusione di un’epoca d’oro, ma per capire che non viviamo soli in questo mondo, che facciamo parte di una storia che dobbiamo ricominciare a scrivere, come ai tempi passati. In questo senso noi guardiamo al Mediterraneo come nuovo Lago di Tiberiade, la grande “piazza” della Galilea delle Genti. Nel discorso che La Pira tenne in apertura del Primo colloquio Mediterraneo, il 3 ottobre 1958, così si esprimeva fra l’altro: «Quale significato assume il nostro colloquio? La risposta, a mio avviso, è possibile se si considera la comune vocazione storica nella comune missione storica e, per così dire, permanente, che la Provvidenza ha assegnato nel passato, assegna nel presente e in un certo senso, assegnerà nell’avvenire (se noi restiamo fedeli) ai popoli e alle nazioni che vivono sulle rive di questo misterioso lago di Tiberiade allargato che è il Mediterraneo. Questa vocazione o questa missione storica comune consistono nel fatto che i nostri popoli e le nostre nazioni sono portatori di una civiltà che grazie alla incorruttibilità e alla universalità dei suoi componenti essenziali costituisce un messaggio di verità, d’ordine e di bene, valido per tutti i tempi, per tutti i popoli e per tutte le nazioni».

A partire dal mare nostrum bisognerà ricostruire l’Europa come “soggetto umano”, resistendo al degrado dell’economicismo, dell’ideologia, qualcuno ha detto della “religione” dell’economia: civiltà, culture, arte, poesia, letteratura, musica, bellezza, è tutto travolto dallo tsunami dei soldi e del calcolo. L’economicismo è la lente distorcente che impedisce di guardare alla questione migranti come “fenomeno umano”. Su questa via si smarrisce l’humanitas e sfuma totalmente quella pietas che di ogni umanità è la vera forza interiore. Se non esiste l’Europa, se non resiste l’Europa, l’Italia agonizza e viceversa. E tuttavia sembra che stia crescendo la nostra incapacità di accogliere esseri umani in difficoltà. Ma l’interrogativo resta, la domanda che dobbiamo porci è: resteremo così umani? La speranza (non solo cristiana) è che l’Italia resti umana e non perda questa possibilità storica di umanizzare l’Europa.

L’accoglienza, la pietas. Nemmeno due mesi fa, il 26 febbraio, nel primo anniversario della tragedia del naufragio di Cutro, ho avuto l’occasione di accompagnare alcuni amici dell’Opera San Vincenzo che avevano, quel 26 febbraio, recuperato alcuni legni del barcone naufragato e con essi hanno costruito un inginocchiatoio che hanno voluto regalare al Santo Padre, che lo ha accolto e benedetto. Un momento di grande intensità. Un legno del dolore trasformato in un legno di preghiera, la barchetta di Ulisse e la croce di Cristo. E questo oggetto, forse oggi obsoleto, l’inginocchiatoio, mi fa ricordare un episodio accaduto proprio qui a Napoli nei primi anni ’50 quando fu invitato a parlare il grande poeta francese Paul Claudel, ormai molto anziano. Per condurlo sul palco a parlare Claudel fu preso quasi di peso e “trasportato” a braccio da alcune persone e lui cominciò il suo discorso scusandosi e dicendo che «arrivato alla mia età non riesco più a camminare, ma posso inginocchiarmi, e questo mi basta». La pietas: se perdiamo questo possiamo anche camminare, anche correre, ma tutto questo diventa un inesausto e frenetico vagare, alla fine privo di senso.

Come uscire da questo labirinto in cui siamo andati a ficcare?

Ci aiuta, proprio quest’anno il calendario. Pasqua, Pesach, Ramadan. Chiamatelo destino, casualità o mistero, ma quest’anno, e non succede spesso, qualcosa ha voluto mostrarci, facendo coincidere cicli lunari e calendari diversi, quanto il nostro Mediterraneo sia una casa comune, un punto di origine e allo stesso tempo un passaggio obbligato di moltitudini che pur provengono anche da luoghi diversi e lontani dalle sponde del mare, casa comune. Le principali ricorrenze religiose, segni di culture e tradizioni che affondano le loro radici nel nostro millenario cammino, quest’anno sono cadute tutte nello stesso periodo, segnando nel susseguirsi una dopo l’altra, una comune appartenenza, che chi vuole vedere, vede. Il Ramadan, il mese sacro dei nostri fratelli e sorelle musulmani, coincide con il nono mese del calendario lunare. Può capitare dunque anche d’inverno, o in piena estate. Ma quest’anno ha voluto farsi trovare all’appuntamento con Pesach, il “passaggio” celebrato dai nostri fratelli e sorelle di religione ebraica, che cade il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera e con la Pasqua cristiana: le tre grandi religioni del Mediterraneo si sono date appuntamento.

Mediterraneo come “passaggio”, come esperienza di sofferenza e speranza, per tanti nostri fratelli e sorelle, che tentano la traversata verso una condizione migliore di vita, verso una speranza. Noi li incontriamo in mare, ascoltiamo le loro storie di torture e violenze subite in Libia, nei lager, in Tunisia, deportati nel deserto. Abbiamo visto tutti quel magnifico film, epico e fiabesco, drammatico e potente, che è Io capitano, del regista napoletano Matteo Garrone. La Pasqua di questi pellegrini inquieti del mare, e anche la nostra, è questa. Vi è morte e resurrezione nel Mediterraneo. Vi è rivelazione. C’è l’inverno e la primavera, nel Mediterraneo. E ci siamo noi, che abbiamo paura delle nostre origini comuni, abbiamo paura di guardarci allo specchio. E allora è più facile che irrompa sulla scena di questo appuntamento tra religioni e culture, una nuova religione. Che non può vantare la storia millenaria delle altre, ma sfodera l’arroganza del capo. È la “religione dell’economia” di cui accennavo prima, quella che Papa Francesco definisce “il paradigma tecnocratico” una religione di puro culto, il vitello d’oro chiede sangue, esige sacrifici umani, adorazione del denaro e del potere, individualismo proprietario, il mercimonio di ogni cosa, in primis della vita umana. Una religione “illuminata” dallo scientismo, dal “tutto è spiegabile e ciò che non lo è non esiste”. La religione della guerra e delle armi, della devastazione di Madre Terra in nome del profitto. La religione del “Dio sono io”. Abbiamo paura delle religioni millenarie, ma non di questa. Perché se ci confrontassimo con le altre, che crediamo o no, troveremo sempre una storia di ribellione, di conflitto contro lo status quo e contro quella parte di noi affascinata dal male, dalla sopraffazione, dall’onnipotenza di poter infliggere all’altro ogni cosa. Troveremo ciò che ci mette in discussione, per come viviamo questa vita, per come la facciamo vivere ad altri. È questa la forza delle religioni: che scuotono la coscienza degli uomini, mettendoli sotto uno sguardo di autocritica severa. Ma la “religione” oggi vincente accarezza gli uomini dal verso del pelo, solleticandone la “pancia”. È un sistema di pensiero che rimuove, tra le altre cose, il dolore e quindi la pietas, la compassione. Viene in mente la battuta di Tolstoj per cui «se sento dolore sono vivo, se sento il dolore degli altri sono un uomo». La questione ancora una volta è come restare umani. Forse proprio dal Sud del mondo, dal Sud del Mediterraneo, può nascere una speranza di “umanizzazione” dei processi inarrestabili della globalizzazione, affinché non diventi come diceva il Papa già undici anni fa, la “globalizzazione dell’indifferenza”.

Il Mediterraneo — per le caratteristiche antropologiche e culturali e non meno per la sua storia e la sua geografia — si può candidare a essere nel futuro un vero “ponte che unisce popoli diversi” e, anche spazio umano nel quale rendere più solido un ethos dialogico e comunionale. A questo dovrebbero lavorare tutte le religioni del mondo. A questo non potrà non lavorare sempre più il cristianesimo, educando a diventare con maggiore convinzione “uomini ecumenici e dialogici”.

Concludo citando di nuovo il discorso di Papa Francesco qui a Napoli il 21 giugno del 2019, in cui ha citato anche lui Giorgio La Pira e il suo sogno: «il Mediterraneo all’inizio del terzo millennio: non è possibile leggere realisticamente tale spazio se non in dialogo e come un ponte ― storico, geografico, umano ― tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali,  mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace. Giorgio La Pira ci direbbe che si tratta, per la teologia, di contribuire a costruire su tutto il bacino mediterraneo una “grande tenda di pace”, dove possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo. Non dimenticare il padre comune».

Per costruire questa grande tenda di pace sono importanti tre atteggiamenti, tre azioni: dialogare, ascoltare, raccontare.

L’importanza del dialogo. Per Papa Francesco il dialogo affonda le sue radici innanzitutto in «uno stile di vita e di annuncio senza spirito di conquista, senza volontà di proselitismo — questa è la peste! — e senza un intento aggressivo di confutazione. Una modalità che entra in dialogo “dal di dentro” con gli uomini e con le loro culture, le loro storie, le loro differenti tradizioni religiose; una modalità che, coerentemente con il Vangelo, comprende anche la testimonianza fino al sacrificio della vita, come dimostrano i luminosi esempi di Charles de Foucauld, dei monaci di Tibhirine, del vescovo di Oran Pierre Claverie e di tanti fratelli e sorelle che, con la grazia di Cristo, sono stati fedeli con mitezza e umiltà e sono morti con il nome di Gesù sulle labbra e la misericordia nel cuore. E qui penso alla nonviolenza come orizzonte e sapere sul mondo, alla quale la teologia deve guardare come proprio elemento costitutivo. Ci aiutano qui gli scritti e le prassi di Martin Luther King e Lanza del Vasto e di altri “artigiani” di pace. Ci aiuta e incoraggia la memoria del beato Giustino Russolillo, che fu studente di questa Facoltà, e di don Peppino Diana, il giovane parroco ucciso dalla camorra, che pure studiò qui».

L’importanza dell’ascolto. Sempre dal discorso del Papa a Napoli: «Il dialogo come ermeneutica teologica presuppone e comporta l’ascolto consapevole. Ciò significa anche ascoltare la storia e il vissuto dei popoli che si affacciano sullo spazio mediterraneo per poterne decifrare le vicende che collegano il passato all’oggi e per poterne cogliere le ferite insieme con le potenzialità. Si tratta in particolare di cogliere il modo in cui le comunità cristiane e singole esistenze profetiche hanno saputo ― anche recentemente ― incarnare la fede cristiana in contesti talora di conflitto, di minoranza e di convivenza plurale con altre tradizioni religiose».

Il dialogo, l’ascolto, non come pose, come esercizi di stile, ma con un fine: abbattere i muri ed edificare i ponti, ricordandoci quella cosa evidente, che abbiamo sotto gli occhi ma tendiamo a rimuovere, e cioè, cito sempre il Papa, che «Il Mediterraneo è proprio il mare del meticciato – se noi non capiamo il meticciato, non capiremo mai il Mediterraneo – un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione. Nondimeno vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che ― a partire dall’ascolto delle radici e del presente ― parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza. La realtà multiculturale e pluri—religiosa del nuovo Mediterraneo si forma con tali narrazioni, nel dialogo che nasce dall’ascolto delle persone e dei testi delle grandi religioni monoteiste, e soprattutto nell’ascolto dei giovani».

L’importanza infine del racconto: riprendiamo a raccontare, uno all’altro, una sponda del mare all’altra sponda, la propria storia, a raccontarci e raccontarsi reciprocamente, questo sforzo aiuterà a farci crescere nella costruzione della propria identità e di una nuova comunità inclusiva, accogliente. Ulisse, come Enea, profughi nel Mediterraneo, sbattuti dalle onde di questo mare inquieto come i loro cuori, vengono accolti perché è questo che ci rende umani, dominare la paura e vincere l’istinto della sopravvivenza e della sicurezza in nome della solidarietà. E insieme a Ulisse ed Enea viene in mente un’altra grande figura di viaggiatore dell’antichità: Abramo. Il grande pensatore ebreo Emanuel Levinas nel saggio La teologia dell’Altro afferma che «al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta». La Bibbia dona all’umanità un’idea che prima era solo intravista, con timore: l’idea del futuro. Nel mondo greco il tempo era circolare, un fato ineluttabile che tornava sempre su se stesso, l’eterno ritorno dell’identico per dirla con Nietzsche. La Bibbia ci spalanca l’idea che l’avvenire è luminoso, è un orizzonte ricco di speranza, di felicità. Un’idea che ha generato tanto e sviluppato grandi effetti, nel bene e nel male, nella storia dell’Occidente.

Teniamocela stretta questa fiducia di Abramo che prontamente si apre ad un futuro più grande, scommettendo sulla promessa di Dio, teniamocelo questo futuro e guardiamo avanti con fiducia, e vedremo che questo mare allora sarà veramente fratello, compagno di strada, e unirà, senza più dividere, tutti i fratelli seduti attorno alla stessa tavola, in amicizia.

di Andrea Monda