· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Con il nuovo presidente il Senegal sembra pronto a uno slancio democratico ed economico

Bassirou Diomaye Faye
e la globalizzazione dei diritti

 Bassirou Diomaye Faye  e la globalizzazione dei diritti   QUO-090
19 aprile 2024

Uno degli interrogativi che gli analisti internazionali si sono posti in questi anni riguarda l’effettiva capacità dei Paesi africani di affermare la partecipazione e il consolidamento dei processi democratici. A questo proposito occorre ricordare che a partire dagli anni Novanta, la maggior parte dei regimi politici si è aperto al multipartitismo in Africa. Attualmente, circa il 43 per cento dei Paesi africani è considerato democratico, almeno formalmente, anche se recentemente è stata registrata una recrudescenza dei colpi di Stato, soprattutto nell’Africa Occidentale. Ad oggi sono quattro i Paesi che non tengono periodicamente elezioni multipartitiche (Eritrea, eSwatini, Somalia e Sudan del Sud). Ci pare che questa sia la giusta premessa per inquadrare quanto è avvenuto recentemente in Senegal a seguito della tradizionale consultazione elettorale.

Com’è noto, la vittoria al primo turno delle presidenziali di Bassirou Diomaye Faye, 44 anni, conclude una fase turbolenta sulla scena politica nazionale che ha di fatto confermato la resilienza democratica di un Paese che alcune “Cassandre” davano già per spacciato. Ma andiamo per ordine. Nel 2019, era stato rieletto per un secondo mandato di 5 anni Macky Sall, quarto presidente del Senegal, a seguito di una revisione costituzionale avvenuta nel 2016 che fissava un limite presidenziale di 2 mandati riducendone la durata da 7 a 5 anni. Sebbene i suoi sostenitori avessero chiesto che si ricandidasse anche quest’anno, ritenendo che il suo primo mandato secondo la precedente Costituzione non dovesse contare, Sall aveva deciso di ritirarsi dalla competizione. Nel febbraio scorso, però, il Consiglio costituzionale aveva provocato un esteso malcontento dopo aver escluso dalla lista dei candidati alcuni importanti membri dell’opposizione. Il dato preoccupante era comunque rappresentato dalla svolta autoritaria di Sall nei confronti dei suoi oppositori politici. Per comprendere la gravità della situazione, basti pensare che Faye, segretario generale del Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità), fino al 15 marzo scorso, appena dieci giorni prima del voto, era in carcere con un’accusa per reato di diffamazione. A condividere la stessa sorte anche Ousmane Sonko, fondatore del movimento ed esponente di spicco dell’opposizione. Entrambi sono stati scarcerati grazie a un’amnistia, ma poiché il Consiglio costituzionale senegalese aveva respinto la candidatura di Sonko, la scelta delle opposizioni riunite in un’unica coalizione è ricaduta su Faye.

Il rinvio a tempo indeterminato delle presidenziali fissate per il 25 febbraio scorso voluto da Sall aveva fatto temere il peggio. Alla fine il buon senso ha prevalso e la disposizione è stata revocata dal Consiglio costituzionale. Figlio di contadini ed ex ispettore del fisco, Faye ha sconfitto il suo principale rivale nel voto di domenica 24 marzo. Il verdetto delle urne è stato implacabile e il candidato del partito al governo Amadou Ba ha ammesso la sconfitta quando, a scrutinio ormai avanzato, era ormai chiaro che Faye aveva ottenuto più del 50 per cento dei suffragi necessari per essere eletto alla massima carica dello Stato al primo turno. Il presidente uscente Macky Sall si è congratulato con lui cercando così di porre riparo alle possibili conseguenze di una rivalsa, dagli esiti incerti, da parte di Faye: «Questa – ha detto – è la vittoria della democrazia senegalese». È importante tenere presente che la deriva autoritaria impressa dal governo di Sall aveva fortemente condizionato la libertà di stampa per cui il dibattito politico non trovava la dovuta risonanza sui mezzi d’informazione e spesso certe dichiarazioni venivano censurate.

Ciò che colpisce maggiormente è stata la discesa in campo dei giovani che si sono opposti alla parabola autoritaria denunciata anche da autorevoli organizzazioni come Human Rights Watch. Essi rappresentano il 75 per cento della popolazione con meno di 35 anni e in questi anni nonostante la forte crescita dell’economia nazionale, hanno sofferto gli effetti della disoccupazione, rappresentando, dal punto di vista occupazionale, quella quota del mercato del lavoro maggiormente penalizzata dall’inflazione, dall’aumento dei tassi d’interesse, dalle privatizzazioni e dalla finanziarizzazione dell’economia nazionale. È evidente che il compito di Faye — il più giovane capo di stato africano democraticamente eletto — è molto impegnativo e non sembra essere necessariamente in linea con le attese dei grandi player internazionali. Lo si evince, ad esempio, da quanto dichiarato dall’agenzia di rating Standard and Poor’s secondo cui sono imminenti alcuni cambiamenti sostanziali: «Crediamo che il governo entrante rivisiterà il Plan Senegal Emergent (Pse), il piano di sviluppo dell’amministrazione uscente; parti del Pse potrebbero essere modificate o cancellate. I rapporti della nuova amministrazione con le multinazionali potrebbero rivelarsi impegnativi, date le promesse elettorali di Faye, inclusa una completa rinegoziazione dei contratti sugli idrocarburi».

Rimane il fatto che contrariamente a quello che pensano i suoi detrattori, Faye ha lanciato un messaggio rassicurante ai leader africani affinché consolidino i risultati dell’integrazione regionale, mentre sul piano internazionale ha rassicurato gli investitori sottolineando che il suo Paese continuerà ad essere un partner affidabile con cui collaborare in uno spirito di «cooperazione virtuosa, rispettosa e reciprocamente produttiva». Faye inizialmente aveva promesso di introdurre una nuova valuta per il Senegal, che attualmente utilizza il franco Cfa, anche se ora ha chiarito che cercherà semplicemente di promuovere delle «riforme» all’interno del blocco della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (Ecowas/Cedeao). Vasti settori della politica e della società civile presenti all’interno della macroregione subsahariana sotto l’influenza di Parigi hanno a lungo visto il franco Cfa come uno strumento persistente di controllo economico francese, dato che la valuta è ancorata all’euro ed è sostenuta dal Tesoro francese. Tuttavia, gli investitori stranieri hanno sempre accolto con favore il franco Cfa poiché ha contribuito a mantenere la stabilità dei cambi e a mantenere i tassi di interesse relativamente bassi.

Alex Vines, direttore dell’Africa Programme nell’ambito del think tank Chatham House di Londra, ritiene che Faye si dimostrerà alla prova dei fatti un pragmatico e che comunque non prenderà decisioni avventate. Un punto di vista che comunque non escude la volontà politica di Faye di promuovere una riforma valutaria che tuteli gli interessi non solo del Senegal, ma anche degli altri partner africani. D’altronde è bene ricordare che nel settembre dello scorso anno, l’Ecowas ha ribadito il suo impegno a lanciare la moneta ecologica comune entro il 2027. Faye è un convinto assertore della necessità di riformare le regole del commercio e dunque dell’urgenza di rinegoziare gli accordi su gas, petrolio, pesca … convinto com’è — noi sottolineammo «giustamente» — che debbano essere vantaggiosi per tutti. Per quanto alcuni potrebbero considerare prematuro o eccessivo accostare la figura di Faye al “Padre della patria”, Léopold Sédar Senghor, vi sono alcune assonanze. Quest’ultimo, grande maestro della négritude (una scuola di pensiero che condivise con altri intellettuali del calibro dell’antillese Aimé Césaire), imputò al colonialismo di aver misconosciuto la civiltà africana per imporre una propria logica civilizzatrice, con l’intento di sfruttare le risorse del continente. Anche se poi con il passare degli anni Senghor avvertì la necessità di superare la concezione originaria di una négritude identitaria, per dedicarsi all’edificazione di un umanesimo integrale ed universale. Possiamo allora forse dire che Faye si è fatto paladino di quelle istanze, nella consapevolezza che l’Africa nel complesso, rivendica un riconoscimento, quello di una dignità che solo la globalizzazione dei diritti potrà garantire. A ciò si aggiunga la corrispondenza tra il programma di Faye e quello del burkinabé Thomas Sankara il quale non si stancava mai di ripetere che l’Africa non chiede beneficenza ma giustizia, incentrando la sua azione politica sull’azzardo dell’utopia. Una cosa è certa: per quanto concerne Faye, sarà la storia a giudicare.

di Giulio Albanese