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Nell’Emilia degli anni ’60 tra rubabandiera e scioperi dei chierichetti

«Il sacerdote che vorrei... l’ho già avuto»

piacenza 20 novembre 2006  mostra fotografica liceo gioia  a firenze per l'alluvione ( foto cravedi ...
17 aprile 2024

Il sacerdote che vorrei l’ho già avuto. Anzi, ne ho avuti due: un parroco e un professore di religione. Don Vincenzo, il parroco di una delle due parrocchie di Bettola, il mio paese, quella “proletaria”. Poco più di mille anime. In chiesa ancora appeso, seppur sbiadito, l’avviso della scomunica ai comunisti voluto dalla Curia di Piacenza. Alla messa domenicale, ai funerali o alle prime comunioni, sempre presenti un bel numero di comunisti. Don Vincenzo cominciò così: un nuovo ricreatorio, destinato negli anni a ospitare attività di ogni tipo, dai piccoli spettacoli teatrali alle cene dell’ultimo dell’anno per i più giovani. Un sagrato con bambini e adolescenti, maschi e femmine, liberi di giocare a pallone o a rubabandiera. Una piccola società sportiva di ragazzi che pretesero, con provocazione giovanile, di intitolarla “Diavoli neri”: ancora oggi, sul sagrato, spicca la targa dedicata al demonio. Poi una corale, buona per i canti sacri nelle funzioni solenni e per i canti popolari da portare nelle sagre paesane, nelle case di riposo e anche nei manicomi, che c’erano ancora.

Mi capitò di sorprendere mia mamma in “misteriose” attività: scoprii che c’era un gruppo presso don Vincenzo che affidava a ciascuno dei membri il soccorso in riservatezza di un povero del paese. Quando, da chierichetto, gli organizzai contro uno sciopero dei chierichetti per una questione di equità nella distribuzione delle mance, don Vincenzo corse da mia mamma per il timore (giustificato) che mi punisse: «Cara Bruna, lo lasci stare. Ho sbagliato io». Il giorno della mia nomina a ministro pensò di interpretare l’orgoglio del borgo suonando le campane. L’unica persona per la quale, nel commemorarne la morte, è stato impossibile alla mia voce vincere le lacrime.

E poi don Niso, insegnante di religione in quello che allora si chiamava ginnasio. In quegli anni l’unica, assolutamente unica occasione di poter discutere in libertà: l’ora di religione. Un pretesto per cominciare: un fatto di cronaca, un problema scolastico, una frase del Vangelo. E don Niso a provocare, a sollecitare anche i più timidi a dire il loro pensiero e a stimolare perché ne avessero uno. A ruota libera per un’ora e alla fine un modo breve di tirare le fila lasciandoti un messaggio senza pretese, ma sostanziale e profondo. Quando arrivò la notizia dell’alluvione di Firenze lanciò nel liceo l’idea: perché non andiamo a dare una mano? Avevo 15 anni e ci sarei andato a piedi. Per convincere i miei a lasciarmi andare però dovetti scomodare don Niso. E poi a Firenze, lui con la tuta sempre con noi, e così l’anno dopo con l’alluvione nel Biellese.

Sacerdoti fatti così. Avessero potuto darti la fede togliendola dal suo andamento carsico e gratuito, te l’avrebbero portata con le mani. Ma sapevano di doverle solo aprirle la strada, mostrandoti il volto di una Chiesa maestra in umanità. Lasciandoti l’idea, per dirla con Albert Camus, che l’irreligiosità è la più grave forma di volgarità. E che sia possibile continuare a cercare.

di Pier Luigi Bersani