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Due film e due declinazioni della ricerca di senso per il futuro

Trame incrociate

 Trame incrociate  QUO-086
15 aprile 2024

Nella seconda puntata de Parole in cammino, dedicata al tema del “desiderare”, ho scelto di mettere a confronto due classici della cinematografia hollywoodiana, due tra i prodotti audiovisivi più rivoluzionari di sempre, in grado, dopo appena pochi decenni dalla nascita del medium, di riscriverne i canoni in senso tecnico-narrativo e, al tempo stesso, di lanciare un chiaro messaggio sul piano socio-politico. La vita è meravigliosa di Frank Capra e Quarto Potere (Citizen Kane nella versione originale) di Orson Welles destrutturano con svolgimenti difformi, ma con esiti critici sorprendentemente convergenti, quella fallace illusione di benessere suscitata dal capitalismo nel corso del Novecento. Non è un caso che, in entrambi i casi, i cosiddetti “poteri forti” abbiano osservato a denti stretti la distribuzione delle due pellicole, con un particolare accanimento riservato al capolavoro firmato da un giovanissimo Orson Welles. Ma procediamo con ordine, immergendoci dapprima nella parabola apparentemente rassicurante portata in scena da Frank Capra con La vita è meravigliosa, per poi addentrarci nei chiaro-scuri concepiti da Welles e Tolland (direttore della fotografia di Quarto Potere).

La vita è meravigliosa esce in sala nel 1946, a pochi mesi dagli orrori del Secondo conflitto mondiale e in un contesto socio-economico ormai immerso in quella controversa metamorfosi, di cui Charles Dickens intravide un secolo prima storture e antinomie generate dalla rivoluzione industriale. Difatti, la pellicola di Capra eredita con orgoglio alcune delle tipiche soluzioni narrative di Dickens, declinandole con efficacia e lungimiranza alla metà del Novecento. La persistente e inalterata attualità de La vita è meravigliosa non passa soltanto da una messa in scena meravigliosamente in linea con le esigenze dello spettatore moderno (Capra introduce tagli netti senza dissolvenze, estromette l’entrata in scena degli attori e rappresenta dialoghi incrociati, in cui, proprio come nella realtà, le voci degli interlocutori si incrociano), ma anche e soprattutto dallo svolgimento della trama. Nel corso dei 130 minuti necessari a consumare la pellicola, lo spettatore attraversa la parabola di George Baily, padre di famiglia da sempre guidato da un forte senso della morale e intenzionato a migliorare le condizioni della propria famiglia e della comunità, rappresentata in questo caso dalla popolazione di una piccola cittadina della provincia americana (Bedford Falls). A complicare i piani di George interviene Henry F. Potter, ricco proprietario di immobili e terreni, intento a prelevare l’azienda di famiglia dei Baily. All’interno della vicenda, il personaggio di Potter diviene fulgida rappresentazione del capitalismo più feroce e amorale, in netta contrapposizione con quello etico e moderato di George. Se è vero che il film si conclude tra manifestazioni di affetto, abbracci e gesti caritatevoli da parte della comunità nei confronti di un disperato George, c’è anche da considerare che, di fatto, Potter ottiene la sua vittoria a livello puramente economico. Dunque un finale rassicurante, ma al tempo stesso un sottile tentativo di disillusione di massa da parte di Capra & co., capaci già all’epoca di prevedere come i vincitori dell’epoca contemporanea sarebbero stati i Potter e non i Baily.

Ma cosa accadrebbe se venisse concepito un lungometraggio nel tentativo di cogliere particelle di umanità persino nella spietata figura di Potter? Beh… un certo Orson Welles ci aveva già pensato nel 1941, l’anno del suo primo e probabilmente insuperato capolavoro in celluloide. Ad appena venticinque anni, coadiuvato dall’encomiabile lavoro di Gregg Tolland alla fotografia e Herman Jacob Mankiewicz in sceneggiatura, Welles confeziona quello che, banalmente, viene considerato da molti il film più importante della storia. L’ultimo periodo avrà fatto facilmente intendere come, nelle righe seguenti, non si tenterà invano di cogliere e restituire la grandezza di Citizen Kane, ma ci serviremo del capolavoro di Welles esclusivamente in relazione al tema della puntata. Sceneggiatura, montaggio, regia, musiche, fotografia, scenografie, costumi e molto altro convive in un’utopia audiovisiva realizzata, in grado di folgorare il mondo e modificare radicalmente le precedenti routine produttive dell’industria cinematografica. La figura di Charles Foster Kane non funge semplicemente da protagonista di un racconto individuale, ma permette a Welles di attaccare frontalmente la nascente plutocrazia statunitense, occupata a promuovere la deleteria dottrina del sogno americano. Al termine della sua vita, dopo aver accumulato beni materiali e potere in quantità difficilmente quantificabili, Kane esala l’ultimo respiro nella sofferta consapevolezza che il suo trionfante percorso di accumulazione è stato soltanto un velleitario tentativo di saturare una voragine emotiva, destinata a non esaurirsi. Il tassello mancante del mosaico incompiuto dai giornalisti — intenti a comprendere il senso dell’ultima parola pronunciata dal magnate — è il dolce ricordo di un’infanzia bruscamente interrotta, destinato a rimanere un mistero per il resto del mondo.

A questo punto, viene spontaneo domandarsi se, all’interno di una società che poco o nulla sembra aver captato dagli avvertimenti finemente rappresentati su schermo da Welles e Capra, sia verosimile aspirare a contrastare i vari Potter e Kane con qualche eroico Baily, nella consapevolezza che, questa volta, potrebbe non bastare una colletta tra amici a salvare il nostro George.

di Leonardo Marcucci