· Città del Vaticano ·

La testimonianza di un cappellano militare a Dnipro

Prima la vicinanza
poi le parole

 Prima la vicinanza  poi le parole  QUO-084
12 aprile 2024

Come racconta con una gentilezza che non sembra arrivare dall’orrore, in questi giorni a Roma si sta «un pò riposando». Don Oleh Ladnyuk è un sacerdote salesiano ucraino che fa il cappellano militare al fronte, tra i soldati che combattono e tra i civili che da oltre due anni hanno visto spazzata via la loro vita. Don Oleh porta gli aiuti umanitari dove cadono i missili e da quei posti aiuta nell’opera di evacuazione di giovani e adulti, finora almeno 500 persone, probabilmente molte di più. Don Oleh svolge il suo ministero a Dnipro e insegna Storia in una scuola statale della città: al momento si trova a Roma per partecipare al corso di formazione Accompanying when trauma hits, ospitato dall’Università Pontificia Salesiana in collaborazione con la facoltà di Scienze dell’educazione, con la fondazione Don Bosco nel mondo e il Don Bosco network. Un progetto che intende fornire strumenti teorici e metodologici per affrontare il trauma provocato dalla guerra.

«Il corso — spiega ai media vaticani il sacerdote salesiano — è stato pensato proprio per l’Ucraina e il Medio Oriente. Dall’Ucraina sono arrivati catechisti, insegnanti e psicologi dalle case salesiane e anche dall’Esarcato di Donetsk, perché metà del loro territorio è occupato e loro devono contribuire alla guarigione dalle ferite provocate dalla guerra. Il corso tratta proprio i temi dei traumi, che però purtroppo non sempre riusciamo a vedere durante i conflitti: ferite psicologiche possono aprirsi anche qualche anno dopo la guerra. Parliamo, per esempio, del lutto. Noi spesso abbiamo a che fare con famiglie, con persone che hanno perso un figlio o un marito o un genitore in guerra. Ai lavori, ci hanno spiegato che cosa possiamo chiedere a queste persone, di che cosa parlare con loro e di che cosa sia meglio non parlare. Per esempio, la frase che spesso può traumatizzare molto è: «Andrà tutto bene». Chi siamo noi per dirlo? Noi possiamo dare un primo, importante, aiuto.

Come ha vissuto personalmente l’accompagnamento delle persone che hanno subìto la perdita dei propri cari, in questi oltre due anni di guerra? Che cosa, secondo lei, è importante ricordare quando si cerca di portare consolazione a qualcuno?

Quando le persone sono in lutto, spesso non ascoltano con le orecchie, ma lo fanno con il cuore. Sono arrabbiate con il mondo, possono essere anche arrabbiate con te perché sei vivo mentre il loro marito o il loro figlio non lo sono più. Per questo è molto difficile: le parole da usare dipendono dalla situazione. Ma più di tutto è importante la presenza, lo stare vicino aiuta molto. Per esempio, nei primi giorni della guerra, quando mi chiedevano: «Dov’è Dio? Non lo vediamo? Qui tutto è distrutto, ci sono tantissimi morti», io non rispondevo, ma restavo con queste persone e poi loro mi dicevano: «Adesso vediamo Dio nella tua presenza fra noi».

Dall’inizio della guerra lei non ha mai smesso di sostenere persone in zone molto vicine alla linea del fronte. La sua missione, ci ha detto, consiste nell’aiutare la gente a rimanere “umana”…

Sì, ho evacuato più di 500 persone da zone molto pericolose, dove gli altri non andavano. La cosa che mi colpisce è che, dopo un anno, dopo due anni, mi arrivano ogni tanto messaggi anche da persone che non conosco e che dicono: «Tu una volta ci hai salvati. Noi lo ricordiamo sempre e ti ringraziamo». E non so nemmeno di chi siano questi messaggi. Poi penso ai ragazzi che ho aiutato a fuggire e che adesso hanno di nuovo una vita e mi domando: «Dove sarebbe questo ragazzo o ragazza, questa famiglia se non li avessi aiutati?». È un modo di vivere pienamente la vita e più ancora quella sacerdotale. Allora continuiamo ad aiutare, a lavorare nelle parrocchie, aiutando quelli che stanno sulla linea del fronte, per esempio la parrocchia di Verkhniokamianske [nella regione di Donetsk, n.d.r.], che da tre parti è circondata dai russi. Là ci sono ancora i nostri parrocchiani greco-cattolici. Per la Pasqua di rito bizantino andrò a visitarli e a benedire la paska [il pane che si prepara in Ucraina per la Pasqua, n.d.r.]. Già da due anni queste persone non possono andare in chiesa perché è stata colpita da una bomba e tutto il paesino è andato distrutto: abitano nei sotterranei, perché non vogliono abbandonare il villaggio.

di Svitlana Dukhovych