Missionari di carità
La Chiesa ha bisogno di sacerdoti che «siano missionari di carità, inviati nel mondo, pieni della gioia che li spinge a dire “sì” a Gesù Cristo ogni giorno», anche quando ciò significa «dire “no” alle proprie preferenze, ai propri desideri, ai propri progetti». Lo ha detto l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali, agli alunni del Seminario maggiore dell’arcidiocesi di Huê, incontrati giovedì 11 aprile nell’ambito della visita in Viet Nam, in corso dal 9 al 14.
Alla presenza dell’arcivescovo Joseph Nguyên Chí Linh, del coadiutore Joseph Ðăng ÐúNgân e del rettore Joseph Ho Thu, il presule ha fatto notare che «tutta la preghiera, la formazione, gli studi e la preparazione in seminario» tendono a un obiettivo: quello di «formare uomini capaci di trasformare in modo autentico e coerente la gioia che hanno sperimentato nel loro incontro con Gesù nella pratica concreta della carità, mentre svolgono il loro ministero sacramentale».
Quindi ha fatto riferimento alla lettera, dell’8 settembre dello scorso anno, di Papa Francesco alla Comunità cattolica del Paese asiatico in occasione dell’adozione dell’accordo sullo statuto del Rappresentante Pontificio residente e sull’Ufficio del Rappresentante Pontificio residente della Santa Sede in Viet Nam. In essa, il Pontefice sottolineava proprio questa missione di carità. Da qui, l’invito, affinché «l’impulso a trasformare l’esperienza dell’amore di Cristo in atti concreti di carità missionaria» sia una «conseguenza naturale della gioia che riempie i nostri cuori».
Tuttavia, ha osservato Gallagher, «il peccato originale e la nostra concupiscenza possono rendere difficile tale processo». Che sia «per pigrizia, orgoglio, ricerca di potere o qualsiasi altra tentazione, questo processo “naturale” non è automatico». Occorrono «uno sforzo costante e una preparazione seria». Tutti dovrebbero allenare l’intelletto, il corpo e la volontà a cercare «le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio».
Per questo, ha evidenziato il presule, la Chiesa «prende molto sul serio la formazione dei sacerdoti». I suoi pastori non «solo devono vivere la fede, ma anche essere capaci di trasmetterla e di insegnare ad altri a viverla in maniera autentica». In proposito, monsignor Gallagher ha ricordato san Giovanni Paolo ii che, nella sua esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, indica quattro “pilastri” della formazione sacerdotale, che «costituiscono le basi per la formazione di seminaristi in tutto il mondo». Poi ha fatto anche riferimento alla Ratio fundamentalis institutionis sacerdotali del Dicastero per il clero, contenente istruzioni per la formazione dei sacerdoti.
Confidando la propria gioia nell’incontrare i seminaristi nella sua prima visita ufficiale in Viet Nam, il presule ha spiegato di aver scelto la “gioia” come parola-chiave del suo intervento perché poco dopo la sua elezione, il 6 luglio 2013, Papa Francesco incontrando seminaristi provenienti da tutto il mondo volle parlare loro «dell’importanza della gioia».
Monsignor Gallagher ha rimarcato che la ragione «della nostra gioia non sono i nostri averi materiali, né il desiderio di potere e di autorità». No, essa «deriva dal fatto che ognuno di noi ha incontrato Gesù Cristo, che ci ha guardati con amore e ci ha chiamati per nome». Naturalmente, essere gioiosi «non significa che non sperimentiamo tristezza o sofferenza, difficoltà e dubbi», ha detto. «Tuttavia, in mezzo a queste sfide, la gioia di conoscere l’amore di Cristo resiste», ha assicurato l’arcivescovo.
Citando parole eroiche di san Paolo Le Bao Tinh, «sulle quali la Chiesa ci invita a riflettere nell’Ufficio delle Letture per la commemorazione dei martiri del Viet Nam», il presule ha rievocato una lettera del santo ai seminaristi di Ke-Vinh nel 1843, nella quale dal carcere scriveva che «in mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me».
Questa «è vera gioia». Questo è «il dono che Dio desidera fare a ognuno di noi: la gioia che deriva dal conoscere l’amore che il Signore Risorto ha per noi, un amore che ha la forza di vincere anche la morte su una croce», ha insistito Gallagher, esortando i seminaristi intervenuti a domandarsi nell’esame di coscienza quotidiano: oggi sono stato una persona gioiosa?». E la risposta, ha suggerito, si può ottenere in modo semplice: la misura di «quanto siamo gioiosi» è «il nostro sorriso». Lo testimonia santa Teresa di Calcutta che, sebbene «per oltre cinquant’anni» abbia «lottato con una profonda aridità spirituale in cui non sentiva la presenza di Dio nella propria vita», era comunque sempre «sorridente, con gli occhi pieni di gioia» e attraverso il suo sorriso «ha portato quella gioia a tutti quelli che incontrava: lebbrosi, senzatetto, abbandonati, persone affette da dipendenze e malattia».
Il presule ha quindi risposto ad alcune domande dei seminaristi e ha affidato le vocazioni alla protezione di Nostra Signora di La Vang, trasmettendo la benedizione del Papa.