Davi Kopenawa
«Non ho paura dell’uomo bianco, ma ho tanta paura delle macchine che distruggono la terra e buttano giù gli alberi e creano fossati nel suolo per prenderne i minerali. Ho paura che questa attività estrattiva rovini le nostre comunità, i fiumi, la salute, la nostra sopravvivenza e le nostre stesse ricchezze. Sono preoccupato per il nostro futuro, le prossime generazioni avranno bisogno ella foresta». Così ai media vaticani Davi Kopenawa, sciamano e rappresentante degli Yanomami del Brasile, dopo l’incontro privato di stamani con Papa Francesco, nello studio dell’Aula Paolo vi , prima dell’udienza generale. «Sapevo che era molto importante per me e per la causa del mio popolo parlare con Papa Francesco. Sono stato ricevuto molto bene, con rispetto», racconta, spiegando che al Pontefice ha fatto presente la situazione «di calamità» in cui vivono le comunità indigene dell’Amazzonia già da troppo tempo, situazione, afferma, che ultimamente è peggiorata molto. «Nonostante a livello internazionale sia stata riconosciuta la protezione di questi territori, sono stati invasi continuamente perché le autorità lo permettono, anzi, — precisa — ci sono state anche autorità che hanno incentivato il fenomeno. Io ho chiesto — riferisce — che per favore il Papa interceda con il presidente della Repubblica del Brasile perché lo convinca a far ritirare i cercatori d’oro e gli altri sfruttatori».
Degli Yanomami, che abitano al confine tra Brasile e Venezuela, ha scritto l’etnografo francese Bruce Albert, che per decenni ha vissuto con loro, ne La caduta del cielo (Nottetempo, 2018), un’opera in cui viene restituito il loro modo così genuino di intendere il mondo, la vita e i rapporti umani, lontano da logiche di profitto e di convenienza. È proprio ciò che ha attratto fratel Carlo Zacquini, dei Missionari della Consolata, che dalla fine degli anni Sessanta ha contattato questo gruppo e non lo ha mai più abbandonato. È lui che accompagna Davi nelle sue visite in Italia: «Io vorrei avere tanta fede quanta ne hanno loro», confida. «Per me è stato un dono straordinario stare con loro. Fin dall’inizio, sono rimasto scioccato per come erano trattati. Ero andato là con un’altra finalità e poi sono rimasto. La loro saggezza — spiega — può essere dono per la Chiesa universale e per tutti i popoli perché è fatta di spontaneità, profonda fiducia, senso di comunità, capacità di superare le difficoltà, che pure non mancano».
Fratel Carlo lamenta che, nonostante la Chiesa locale abbia fatto passi da gigante offrendo una gran quantità di orientamenti per la tutela di questo patrimonio dell’umanità, resta ancora molto da fare perché gli auspici del Papa espressi nella Esortazione apostolica di quattro anni fa Querida Amazonia siano messi in pratica. «Per risolvere questi problemi — osserva Davi — l’importante è scegliere persone che amino gli indios e che conoscano la loro realtà a fondo. I politici locali e nazionali non permettono che la salute del popolo Yanomami sia salvaguardata e questo capita anche ad altri gruppi. I possidenti terrieri, i commercianti di legname non permettono che le nostre terre siano rispettate». La denuncia di Davi tocca anche la stessa Funai (Fondazione Nazionale dell’Indio) — deputata a garantire che i loro diritti, stabiliti dalla Costituzione brasiliana e dallo Statuto dell’Indio, siano rispettati che, secondo quanto egli riferisce, «è stata smontata a tal punto che non si riesce a farla funzionare per le esigenze per cui è nata».
Dagli anni Ottanta ad oggi, Davi si è fatto all’estero portavoce della richiesta di tutela dei diritti indigeni e della salvaguardia della foresta pluviale a beneficio dell’umanità. Insignito nell’89 del prestigioso Right Livelihood Award, il Nobel alternativo assegnato a Survival International — l’associazione da lui fondata anche per promuovere progetti educativi — per il suo «strenuo, coerente e costante impegno» per i popoli più minacciati della terra, Kopenawa ha subito minacce di morte da parte di criminali che sarebbero collusi con i minatori invasori illegali del territorio Yanomami. «Ma la foresta può guarire?», gli chiediamo prima di congedarlo. «No — risponde laconico — la foresta è già stata disboscata. Solo Dio può curarla. Le persone non ci riusciranno». Che sia salvato ciò che resta, è la speranza condivisa, perché gli indios, con i loro copricapi piumati e le collane di perline multicolore, siano accolti nel loro grido. In gioco è quell’appello all’ecologia integrale di cui tanto parla Papa Francesco, quanto mai da rinnovare e implorare coralmente, così che di questi popoli resti al di fuori dei loro confini una commossa gratitudine e solidarietà, non solo un elemento folcloristico da fotografare.
di Antonella Palermo