· Città del Vaticano ·

Il magistero

 Il magistero  QUO-077
04 aprile 2024

Giovedì santo, 28 marzo

Il sacerdote
non giudica
ma piange
per i peccati
degli altri

«Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui» (Lc 4, 20). Questo passaggio del Vangelo porta a immaginare quel silenzio in cui tutti gli sguardi erano concentrati su Gesù, in un misto di meraviglia e diffidenza.

Sappiamo come andò a finire: dopo che Gesù ebbe smascherato le false aspettative dei suoi compaesani, essi «si riempirono di sdegno», uscirono e lo cacciarono.

I loro occhi avevano fissato Gesù, ma i cuori non erano disposti a cambiare. Nella sera Giovedì santo, avviene un incrocio di sguardi alternativo. Protagonista è Pietro.

Pure lui all’inizio non prestò fiducia alla parola “smascherante” che il Signore gli aveva rivolto: «Tre volte mi rinnegherai». Così “perse di vista” Gesù.

Ma quando «il Signore si voltò e fissò lo sguardo» su di lui, i suoi occhi furono inondati di lacrime che, sgorgate da un cuore ferito, lo liberarono da convinzioni e giustificazioni fasulle. Quel pianto amaro gli cambiò la vita.

Le parole e i gesti di Gesù per anni non avevano smosso Pietro dalle sue attese, simili a quelle della gente di Nazaret.

Aspettava un Messia politico e potente, forte, e di fronte allo scandalo di un Gesù debole dichiarò: «Non lo conosco!».

È vero, non lo conosceva: cominciò quando, nel buio del rinnegamento, fece spazio alla vergogna, al pentimento. E lo conoscerà quando, «addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”», si lascerà attraversare dallo sguardo di Gesù. Allora dal «non lo conosco» passerà a: «Signore, tu conosci tutto».

La guarigione di Pietro, la guarigione del Pastore avvengono quando, feriti e pentiti, ci si lascia perdonare da Gesù.

Per questo [vorrei] condividere qualche pensiero su un aspetto spirituale piuttosto tralasciato; una parola forse desueta, ma che fa bene riscoprire: la compunzione.

Evoca il pungere: “una puntura sul cuore”, una trafittura che ferisce, facendo sgorgare lacrime di pentimento.

Ancora Pietro trafitto dallo sguardo di Gesù risorto, nel giorno di Pentecoste, purificato dallo Spirito, proclamò a Gerusalemme: «Dio ha costituito Signore quel Gesù che avete crocifisso».

Gli ascoltatori avvertirono il male che avevano compiuto e la salvezza che il Signore elargiva, e «si sentirono trafiggere il cuore». Ecco la compunzione: non un senso di colpa che butta a terra, paralizza, ma una puntura benefica che brucia e guarisce, perché il cuore quando vede il proprio male accoglie l’azione dello Spirito.

Chi getta la maschera riceve il dono di queste lacrime, le acque più sante dopo quelle del Battesimo.

Piangere su noi stessi non significa piangerci addosso. Ciò avviene quando siamo delusi o preoccupati per le nostre attese andate a vuoto. O quando, per un insano piacere, amiamo rimestare nei torti ricevuti per auto-commiserarci.

Piangere su noi stessi è pentirci di aver rattristato Dio; riconoscere di essere in debito; ammettere di aver smarrito la via.

È dolermi della mia ingratitudine e incostanza; meditare con tristezza le mie doppiezze e falsità; scendere nei meandri della mia ipocrisia.

Per rialzare lo sguardo al Crocifisso e lasciarmi commuovere dal suo amore che risolleva e non lascia deluse le attese.

La compunzione richiede fatica ma restituisce pace; non provoca angoscia, ma dispone a ricevere la carezza del Signore.

È l’antidoto alla sclerocardia, la durezza del cuore denunciata da Gesù.

Il cuore senza pentimento e pianto si irrigidisce: diventa abitudinario, insofferente e indifferente, quindi freddo e quasi impassibile, infine di pietra.

Ma la goccia scava la pietra, così le lacrime scavano cuori induriti. Si assiste al miracolo della buona tristezza che conduce alla dolcezza.

I maestri spirituali insistono sulla compunzione. San Benedetto, San Giovanni Crisostomo, l’Imitazione di Cristo .

La compunzione riporta alla verità, così che la profondità del nostro essere peccatori riveli la realtà più grande del nostro essere perdonati.

Non stupisce Isacco di Ninive: «Colui che dimentica la misura dei propri peccati, dimentica la grazia di Dio».

L’incontro
tra la nostra
miseria
e la sua
misericordia

Ogni rinascita scaturisce dall’incontro tra la nostra miseria e la sua misericordia. Noi sacerdoti chiediamoci quanto la compunzione e le lacrime siano presenti nel nostro esame di coscienza.

Domandiamoci se, col passare degli anni, le lacrime aumentano... [al] contrario rispetto alla vita biologica, dove quando si cresce si piange meno di quando si è bambini. Nella vita spirituale conta diventare bambini: chi non piange regredisce, invecchia dentro, mentre chi raggiunge una preghiera più semplice e intima, matura. Si sente più vicino ai poveri, prediletti di Dio, che prima — come scrive San Francesco — teneva lontani in quanto era nei peccati, ma la cui compagnia poi diventa dolce.

Chi si compunge nel cuore si sente sempre più fratello di tutti i peccatori senza parvenza di superiorità o asprezza di giudizio, ma con desiderio di amare e riparare. Questa è un’altra caratteristica della compunzione: la solidarietà.

Un cuore docile diventa incline a fare compunzione per gli altri: anziché adirarsi e scandalizzarsi, piange per i loro peccati. La tendenza a essere indulgenti con sé stessi e inflessibili con gli altri si capovolge.

Pensiamo ai monaci del deserto, in Oriente e in Occidente; all’intercessione, fatta di gemiti e lacrime, di San Gregorio di Narek; all’offerta francescana per l’Amore non amato; a sacerdoti, come il Curato d’Ars. Non è poesia, è sacerdozio!

A noi suoi Pastori, il Signore non chiede giudizi sprezzanti, ma lacrime per chi è lontano. Le situazioni difficili che vediamo e viviamo, la mancanza di fede, a contatto con un cuore compunto non suscitano polemica ma misericordia.

Abbiamo bisogno di essere liberi da durezze e recriminazioni, egoismi e ambizioni, rigidità, per affidarci a Dio! Adoriamo, intercediamo e piangiamo per gli altri. Il nostro ministero ne gioverà.

Oggi corriamo il rischio di essere tentati di “tirare i remi in barca”, di chiuderci nella lamentela e far prevalere i problemi sulla grandezza di Dio. Se ciò avviene, diventiamo amari, sempre sparlando.

Ma se invece amarezza e compunzione si rivolgono anziché al mondo al proprio cuore, il Signore non manca di rialzarci.

Da ultimo, la compunzione non è frutto del nostro esercizio, ma una grazia e va chiesta nella preghiera.

Condivido due consigli: primo, non guardare la vita e in una prospettiva di efficienza e immediatezza, legata all’oggi e alle sue urgenze, ma nell’insieme [di] passato e futuro.

Secondo, riscopriamo una preghiera che non sia dovuta e funzionale, ma gratuita, calma e prolungata.

Grazie cari sacerdoti per il vostro cuore aperto e docile; per le fatiche e i pianti; perché portate la meraviglia della misericordia, portate Dio. Il Signore vi consoli, confermi e ricompensi.

(Messa del Crisma nella basilica Vaticana)

Sabato santo, 30 marzo

La forza
del Risorto
libera i cuori
dai macigni
dell’egoismo
e dell’odio

Le donne vanno al sepolcro alle prime luci dell’alba, ma dentro conservano il buio. Pur essendo in cammino, sono ferme: il cuore è rimasto ai piedi della croce. Annebbiate dalle lacrime del Venerdì Santo, sono paralizzate dal dolore, rinchiuse nella sensazione che sia tutto finito, che sopra la vicenda di Gesù sia stata messa una pietra. Si chiedono: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?».

Quando arrivano sul luogo, la sorprendente potenza della Pasqua le sconvolge. In un primo momento, le donne si chiedono angosciate chi farà rotolare via la pietra; poi, alzando lo sguardo, vedono che è già stata fatta rotolare.

Quella pietra rappresentava la fine della storia di Gesù. Lui, la vita venuta nel mondo, è stato ucciso; non ha ricevuto pietà.

Il Principe della pace, che aveva liberato un’adultera dalle pietre, giace sepolto dietro una grossa pietra.

Quel masso insormontabile, era il simbolo di ciò che le donne portavano nel cuore, il capolinea della loro speranza: contro di esso tutto si era infranto.

Questo può accadere anche a noi. Sentiamo che una pietra è stata poggiata all’ingresso del cuore, soffocando la vita, spegnendo la fiducia, imprigionandoci, bloccando la via verso la gioia e la speranza.

Sono “macigni della morte” e li incontriamo in tutte quelle esperienze e situazioni che rubano la forza di andare avanti: nelle sofferenze e nelle morti delle persone care; nei fallimenti e nelle paure che impediscono di compiere quanto di buono abbiamo a cuore; in tutte le chiusure che frenano slanci di generosità; nei muri di gomma dell’egoismo, che respingono l’impegno a costruire società più giuste; in tutti gli aneliti di pace spezzati dalla crudeltà dell’odio e dalla ferocia della guerra.

Eppure queste donne alzando lo sguardo osservarono che la pietra era stata fatta rotolare. Ecco la Pasqua: la vittoria della vita sulla morte, il trionfo della luce sulle tenebre, la rinascita della speranza [tra] le macerie del fallimento. Il Dio dell’impossibile per sempre ha rotolato via la pietra.

Allora alziamo lo sguardo a Gesù: Egli, dopo aver assunto la nostra umanità, è disceso negli abissi della morte e li ha attraversati, aprendo uno squarcio infinito di luce. Risuscitato dal Padre, ha aperto una pagina nuova per il genere umano.

Se ci lasciamo prendere per mano da Gesù, nessun fallimento e dolore, per quanto ferisca, può avere l’ultima parola sul destino della nostra vita.

Gesù è la nostra Pasqua, Colui che fa passare dal buio alla luce, e ci salva dai baratri del peccato e della morte.

Accogliamo [il] Dio della vita e nessun macigno potrà soffocarci il cuore, nessuna tomba rinchiudere la gioia, nessun fallimento relegarci nella disperazione.

Chiediamogli che la potenza della sua risurrezione rotoli via i massi che opprimono l’anima. Esploda di giubilo il cuore in questa notte santa!

(Veglia pasquale nella Notte santa)

Lunedì dell’Angelo, 1 aprile

Condividere
la gioia
pasquale

Oggi, Lunedì dell’Ottava di Pasqua, il Vangelo (Mt 28, 8-15) mostra la gioia delle donne per la risurrezione di Gesù.

Questa gioia nasce dall’incontro con il Risorto, emozione prorompente che le spinge a raccontare ciò che hanno visto.

Condividere la gioia è un’esperienza meravigliosa: un ragazzo che prende un bel voto a scuola non vede l’ora di mostrarlo ai genitori, un giovane che raggiunge i primi successi sportivi o una famiglia in cui nasce un bambino. Le donne il mattino di Pasqua vivono quest’esperienza, ma in modo più grande. Perché la risurrezione non è solo il lieto fine di una storia, ma cambia la vita per sempre! È la vittoria della vita sulla morte... della speranza sullo sconforto.

Gesù ha squarciato il buio del sepolcro e la sua presenza riempie di luce. Con Lui ogni giorno diventa la tappa di un cammino eterno, ogni “oggi” può sperare in un “domani”, ogni fine in un inizio, ogni istante è proiettato verso l’eternità.

La gioia della Risurrezione non è qualcosa di lontano. È vicinissima, perché ci è stata donata nel Battesimo.

Da allora anche noi, come le donne, possiamo incontrare il Risorto ed Egli ci dice: «Non temete!».

Non rinunciamo alla gioia della Pasqua! Ma come alimentare questa gioia? Come hanno fatto le donne: incontrando il Risorto, fonte di una gioia che non si esaurisce.

Affrettiamoci a cercarlo nell’Eucaristia, nel perdono, nella preghiera e nella carità! La gioia, quando si condivide, aumenta.

(Regina caeli in piazza San Pietro)

Mercoledì 3

Un mondo
senza giustizia
è un mondo
senza pace

Eccoci alla seconda delle virtù cardinali: la giustizia, virtù sociale per eccellenza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica la definisce «la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto».

Spesso, quando si nomina la giustizia, si cita anche il motto che la rappresenta: “unicuique suum” cioè “a ciascuno il suo”. È la virtù del diritto, che cerca di regolare con equità i rapporti tra le persone.

È rappresentata allegoricamente dalla bilancia, perché si propone di “pareggiare i conti” tra gli uomini, soprattutto quando rischiano di essere falsati da qualche squilibrio. Il suo fine è che ognuno sia trattato secondo la sua dignità.

Ma già gli antichi maestri insegnavano che sono necessari anche altri atteggiamenti virtuosi, come benevolenza, rispetto, gratitudine, affabilità, onestà: virtù che concorrono alla buona convivenza.

Un mondo senza leggi che rispettano i diritti assomiglierebbe a una giungla. Senza giustizia, non c’è pace.

Se non viene rispettata, si generano conflitti. Senza giustizia, si sancisce la legge della prevaricazione del forte sui deboli.

È una virtù che non riguarda solo le aule dei tribunali, ma anche l’etica che contraddistingue la vita quotidiana.

Stabilisce con gli altri rapporti sinceri: realizza il precetto del Vangelo, secondo cui il parlare cristiano dev’essere: «“Sì, sì”, “No, no”». Le mezze verità, i discorsi sottili che vogliono raggirare il prossimo, le reticenze che occultano i reali propositi, non sono consoni alla giustizia.

L’uomo giusto è retto, semplice e schietto, non indossa maschere, si presenta per quello che è.

Sulle sue labbra si trova la parola “grazie”: sa che, per quanto ci sforziamo di essere generosi, restiamo sempre debitori nei confronti del prossimo. Se amiamo è perché siamo stati prima amati.

Nella tradizione si possono trovare innumerevoli descrizioni dell’uomo giusto. [Egli] ha venerazione per le leggi e le rispetta, sapendo che costituiscono una barriera che protegge gli inermi dalla tracotanza dei potenti.

Non bada solo al proprio benessere, ma vuole il bene dell’intera società. Non cede alla tentazione di pensare solo a sé e curare i propri affari come se fossero l’unica cosa che esiste. La giustizia rende evidente che non ci può essere un vero bene per me se non c’è anche il bene di tutti.

Perciò l’uomo giusto vigila sul proprio comportamento, perché non sia lesivo nei riguardi degli altri: se sbaglia, si scusa.

In qualche situazione arriva a sacrificare un bene personale per metterlo a disposizione della comunità. Desidera una società ordinata, dove siano le persone a dare lustro alle cariche, e non [viceversa].

Aborrisce le raccomandazioni e non commercia favori. Ama la responsabilità ed è esemplare nel promuovere la legalità. È la via della giustizia, l’antidoto alla corruzione: è importante educare in particolare i giovani alla cultura della legalità!

È la via per prevenire il cancro della corruzione e debellare la criminalità, togliendole il terreno sotto i piedi.

Il giusto rifugge comportamenti nocivi come la calunnia, la falsa testimonianza, la frode, l’usura, il dileggio, la disonestà.

Mantiene la parola data, restituisce quanto ha preso in prestito, riconosce il corretto salario a tutti gli operai, si guarda bene dal pronunciare giudizi temerari, difende la fama e il buon nome altrui.

Nessuno sa se nel mondo gli uomini giusti siano numerosi o rari come perle preziose. Ma attirano grazia e benedizioni. Non sono perdenti rispetto a “furbi e scaltri”, perché «chi ricerca la giustizia e l’amore troverà vita e gloria».

I giusti non sono moralisti che vestono i panni del censore, ma persone rette che «hanno fame e sete della giustizia», sognatori che custodiscono il desiderio di una fratellanza universale.

E di questo sogno, specie oggi, abbiamo tutti bisogno.

La pazzia della guerra nella martoriata Ucraina

Non dimentichiamo la martoriata Ucraina, tanti morti! Ho nelle mani un rosario e un libro del Nuovo Testamento lasciato da un soldato morto nella guerra.

Questo ragazzo si chiamava Oleksandr, Alessandro, 23 anni. Leggeva il Nuovo Testamento e i Salmi e aveva sottolineato, nel Libro dei Salmi, il 129: “Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce”.

È morto ad Avdiïvka, nella guerra. Ha lasciato davanti una vita.

Io vorrei fare un po’ di silenzio, pensando a questo ragazzo e a tanti altri come lui, morti in questa pazzia della guerra. La guerra distrugge sempre!

(Udienza generale in piazza San Pietro)