· Città del Vaticano ·

Tana libera tutti!

 Tana libera tutti!  ODS-020
07 aprile 2024

In un bar, due amici stanno conversando. Uno di loro dice all’altro: «Io non gioco per vincere, è giocare che mi dà la scarica di adrenalina, l’emozione».

Certo, se fosse la vincita a dare soddisfazione, l’amico “perdente”, in un lampo di saggezza, dovrebbe far proprie le parole che Mina, accompagnata dall’armonica di Toots Thielemans, cantava: «Non gioco più, me ne vado; non gioco più, davvero!».

Eppure questo non accade. Evidentemente, è ben altra la pulsione che spinge a restare attaccati a una slot machine — e non si capisce perché lo si possa fare, sia pure in appositi spazi, fumando liberamente quando in tutti gli altri luoghi chiusi come bar e ristoranti è vietato — o a passare il tempo a “grattare” su cartoncini colorati.

Certamente, l’illusione di arricchirsi facilmente e in breve tempo è la molla iniziale, in sintonia, purtroppo, con un trend molto diffuso attualmente: quello di adorare Mammona (in verità, mai in ribasso durante i secoli) e di volere che tutto avvenga il più velocemente possibile.

Ma poi è la componente della sfida che rimane e inchioda il giocatore. D’altra parte lo era anche in passato, quando la società, non ancora globale, non era preda della frenesia, ma la gente giocava — e si rovinava — ugualmente; solo con un po’ meno di fretta.

È l’irrazionalità di questa pulsione che fa oggi riconoscere la mania del gioco come patologia vera e propria.

Sono interessanti le risposte che, nel bar di cui all’apertura, ho sentito dare alla domanda: «Si vince?». «Sì, vinco quando non gioco!», dice uno. «Bah... monetine», sospira un altro.

Non manca dunque la lucidità che permette di valutare che il gioco (in questo caso nel vero senso della parola) non vale la candela.

Anche questi avventori ne sembrano consapevoli, ricordando forse l’ammonimento che, in una vecchissima storia a fumetti degli anni ‘60 o ‘70, Paperon de’ Paperoni rivolgeva a Paperino che giocava a qualche lotteria: «Chi dal gioco attende soccorso mette il pelo lungo come l’orso!».

Eppure continuano a giocare... e a perdere. Magari solo pochi spiccioli, giusto per ingannare la noia o spezzare la routine fra una chiacchiera e l’altra. Se non, nei casi limite che purtroppo non mancano, lo stipendio o la pensione di un mese e l’intero patrimonio di famiglia.

Ma poiché, come si dice in Toscana, “il peggio non è mai morto”, ora dobbiamo confrontarci con un’aggravante: se si gioca d’azzardo probabilmente da secoli e secoli, oggi lo si fa non più contro avversari umani — con gli stessi nostri limiti —, bensì con macchine e dispositivi elettronici che non lasciano alcuno spazio a sia pur modeste abilità o meccanismi psicologici di controllo, se non di indirizzo, del gioco.

E quali sono, rebus sic stantibus, le prospettive future se — come ci mettono in guardia le statistiche — la dipendenza da azzardo, al pari di altre patologie, si sta diffondendo in misura significativa tra i giovani?

Certo, una rondine non fa primavera, ma sicuramente mi ha confortato non poco vedere in un parco una dozzina di liceali con la loro prof. intenti ad un gioco di ruolo di società, come quelli che si facevano tra bambini e ragazzi prima che il benessere materiale ci immobilizzasse sempre più davanti alla tv, prima, al computer, poi, e, ora, allo smartphone. In quella scena, mi ha colpito un’assenza clamorosa: il telefonino per l’appunto. Nessuno dei ragazzi lo stava usando; ma tutti interagivano fra loro, fra persone reali, direttamente. Così come si faceva una volta.

Che nostalgia per quei pomeriggi, dopo la scuola, passati a giocare a nascondino, ad acchiapparello o a tirar calci a un pallone mezzo sgonfio nel cortile di casa. «Giochi da bambini», dirà l’amico del bar senza alzare lo sguardo dal suo “gratta e vinci”. «È vero, ma sai quanto è bello poter gridare, anche all’azzardo, “tana libera tutti”!».

di Fabrizio Salvati